mercoledì 24 settembre 2008

Quel birichino di Costantino

Quel birichino di Costantino

di Andrea Tornielli



Ci siamo dunque lasciati alle spalle le elucubrazioni sul matrimonio di Gesù e della Maddalena, delle quali Dan Brown è soltanto l’ultimo propagatore. Possiamo ora affrontare un altro dei capisaldi della costruzione teorica sottesa al suo Codice da Vinci, vale a dire il «complotto» ordito dall’imperatore Costantino e dalla Chiesa nel corso del Concilio di Nicea, per «eliminare» i testi evangelici scomodi, salvando solo quelli più innocui, e al tempo stesso «divinizzare» l’umana figura di Gesù di Nazaret. Il quale, secondo Brown e i suoi molti ispiratori, non era certo il figlio di Dio, ma un grande profeta. Ricordiamo, a mo’ di promemoria, alcune delle affermazioni contenute in proposito nel Codice da Vinci.

Innanzitutto la Bibbia e i suoi scritti canonici, così come essi sono stati tramandati a noi, sarebbero stati raccolti da Costantino il Grande, il quale nell’anno 325 avrebbe anche deciso di unificare l’impero sotto un’unica religione, il cristianesimo. Mentre fino a quel momento, a detta di Dan Brown, Gesù era stato considerato dai suoi seguaci «come un profeta mortale», da quel momento, con un voto a maggioranza, Costantino lo impone come «divino». Anche in questo caso, il nostro romanziere non inventa nulla: un’affermazione simile la ritroviamo nel libro di Baigent, Leigh e Lincoln, The Holy Blood and The Holy Grail: «Il Concilio di Nicea decise, con una votazione, che Gesù era un dio e non un profeta mortale… (Costantino), un anno dopo il Concilio di Nicea, sanzionò la confisca e la distruzione di tutte le opere che contestavano gli insegnamenti ortodossi: le opere dei pagani che parlavano di Gesù e quelle dei cristiani “eretici”… Fu a questo punto che vennero apportate probabilmente quasi tutte le alterazioni decisive al Nuovo Testamento e Gesù assunse la posizione eccezionale che ha avuto da allora… Delle cinquemila versioni manoscritte più antiche del Nuovo Testamento, nessuna è anteriore al IV secolo. Il Nuovo Testamento nella sua forma attuale è sostanzialmente il prodotto dei revisori e degli scrittori del IV secolo: custodi dell’ortodossia, “seguaci del messaggio” con precisi interessi da difendere».

Cominciamo col porci alcune domande. Innanzitutto, chi era Costantino? La descrizione che ne fa Dan Brown nel Codice da Vinci è veritiera e corrispondente alla storia (alla storia, non alla fede cristiana)? Il lettore che ci ha seguito fin qui probabilmente già immagina la risposta. Ma procediamo per gradi.

Costantino I detto il Grande (Caio Flavio Valerio Aurelio) imperatore romano dal 306 al 337 nasce da Costanzo I Cloro, quando questi era ancora un semplice ufficiale, e da Flavia Elena. Dopo la nomina a «cesare» del padre, Costantino viene cresciuto nella città di Nicomedia presso Diocleziano, per essere in futuro associato all’impero e anche come «garanzia» della fedeltà dello stesso Costanzo. Accompagna Diocleziano in Egitto nel 296 e al servizio di Galerio come tribuno militare combatte contro i persiani e i sarmati. Richiamato dal padre Costanzo, dopo che quest’ultimo era stato proclamato «augusto» in seguito all’abdicazione di Diocleziano e di Massimiano, lo segue in una campagna in Britannia e alla sua morte, per acclamazione dei soldati, ne assume il posto e il titolo. Siamo all’anno 306. Dopo aver vinto i franchi, Costantino si accorda con Massimiano, che aveva intanto assunto nuovamente il potere. Sposa la figlia di Massimiano, Fausta, e ottiene il riconoscimento di «augusto», che però gli viene contestato da Diocleziano. Crescono pure i contrasti con il suocero, che Costantino fa prigioniero a Marsiglia costringendolo al suicidio nel 310. Si allea allora con l’«augusto» Licinio, al quale dà in moglie la sorellastra Costanza, e con Massimino Daia, lasciando entrambi a governare l’Oriente, si dedica a fare guerra a Massenzio, il figlio di Massimiano, che mirava al governo dell’Occidente. Costantino ha la meglio sull’esercito di Massenzio e dopo aver marciato su Roma lo sconfigge a Ponte Milvio, il 23 ottobre 312. A questo punto, Costantino si fa riconoscere dal Senato romano il titolo di «maximus augustus» e, all’inizio dell’anno 313, s’incontra con Licinio a Milano, emanando assieme a lui il famoso editto con il quale viene proclamata la libertà di culto per i cristiani e si decretava la restituzione dei beni che erano stati loro confiscati.

«Noi, Costantino Augusto e Licinio Augusto, felicemente uniti a Milano», si legge nell’editto, «e trattando di ciò che riguarda la sicurezza e l’utilità pubblica, abbiamo creduto che uno dei primi nostri doveri fosse di regolare ciò che interessa il culto della divinità e di dare ai cristiani, come a tutti gli altri nostri sudditi, la libertà di seguire la religione che ognuno desidera (“liberam potestatem sequendi religionem, quam quisquam voluisset), onde richiamare il favore del Cielo sopra di noi e sopra tutto l’Impero».

L’accordo tra Costantino e Licinio, dopo l’eliminazione di Massimino Daia (avvenuta nell’estate del 313) è precario: il definitivo conflitto tra i due «augusti» avviene ad Adrianopoli e a Crisopoli nel 323. Abolito il sistema della tetrarchia instaurato da Diocleziano (che prevedeva due «augusti» e due «cesari» che sarebbero loro subentrati), Costantino rimane unico e incontrastato imperatore. Durante il suo regno deve affrontare il pericolo incombente dei barbari: nel 332 stabilisce una pace con i goti (che saranno evangelizzati dopo pochi anni secondo il credo ariano). Si dimostra spietato nei confronti dei familiari, facendo uccidere il figlio maggiore Crispo e poi la moglie Fausta.

Alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio, Costantino aveva diffuso la notizia di avere avuto la visione di una divinità, che l’aveva ispirato promettendogli la vittoria; aveva quindi assunto come insegna un simbolo, il labaro, che fu poi interpretato come il «chrismon» cristiano (le lettere «chi» e «ro», iniziali del nome di Cristo), o come l’emblema della croce. Fatti e simboli, questi, ai quali sarà dato un preciso significato cristiano solo più tardi, quando la nuova religione si sarà pienamente affermata.

Si può legittimamente pensare che Costantino si sia avvicinato per gradi al cristianesimo, a partire da un culto monoteistico del «dio sole» che egli professava. Con l’editto di Milano, l’imperatore, per assicurare la pace nel suo regno, concede a tutti di adorare Dio nel modo che preferiscono. Presiede il Concilio di Nicea, in qualità di «vescovo di coloro che sono fuori dalla Chiesa», e attribuisce a se stesso una funzione di regolatore della vita religiosa, anche se mantiene la carica tradizionale degli imperatori, vale a dire quella di «pontifex maximus», sommo sacerdote del culto pagano. Nel 321 concede ai cristiani il riconoscimento della domenica come giorno di riposo, seppure battezzata con il nome di «giorno del sole»: in questo modo accontenta anche i pagani, soprattutto i numerosi adepti del culto di Mitra, per i quali la domenica è proprio il «giorno del sole».

Si converte, con tutta probabilità, soltanto alla fine della vita. Il vescovo ariano Eusebio di Nicomedia, molto influente a corte, lo battezza sul letto di morte. Al di là delle diatribe sulla data della sua conversione, è indubitabile che proprio grazie a Costantino e alle sue leggi (libertà di culto, restituzione dei beni confiscati, dispensa per il clero dalle prestazioni obbligatorie, diritto della Chiesa di ricevere donazioni, abolizione delle leggi contro il celibato, costruzione di basiliche) che il cristianesimo si diffonderà nell’impero.

Con l’imperatore Costantino l’impero romano assume in modo definitivo la forma di una monarchia di diritto divino, con aspetti orientaleggianti. La figura del sovrano è al centro di tutto, governa tutto e tutto ciò che lo riguarda diventa sacro: in sua presenza bisogna rispettare un «religioso silenzio». È lui a fondare una nuova capitale, Costantinopoli, sul luogo dell’antica Bisanzio. E sarà attribuito a lui un documento apocrifo, la cosiddetta «Donazione di Costantino» che sarebbe stata rivolta a Silvestro, vescovo di Roma, nell’anno 313, attraverso la quale l’imperatore concedeva al Papa il potere temporale.

È vero pertanto, come afferma il Codice da Vinci, che Costantino avrebbe reso il cristianesimo la religione ufficiale dell’impero romano? Assolutamente no. Questo infatti avverrà una quarantina d’anni dopo Costantino, sotto l’imperatore Teodosio, che regna tra il 379 e il 395. Sarà lui a promulgare una legge che vieta ogni culto sacrificale pagano ma anche ogni semplice visita al tempio. Persino adorare gli idoli pagani in casa propria viene proibito.

Veniamo ora alla spinosa questione del Concilio di Nicea, che secondo Dan Brown avrebbe stabilito il canone delle scritture cristiane, abolendo quelle apocrife perché pericolose. E avrebbe anche stabilito grazie a una votazione la divinità di Cristo. Tanto per cominciare dobbiamo ricordare che il Concilio di Nicea non si è occupato del canone delle scritture sacre, ma ha affrontato problemi legati alla disciplina ecclesiastica in un momento di grandi dispute dottrinali. Anche se è vero che il canone, già formatosi in precedenza, si va rafforzando nell’età costantiniana con la conseguente perdita d’influenza dei testi considerati apocrifi.

La grande questione a tema nel Concilio è relativa al Dio unico e allo stesso tempo trino, al Dio unico in tre persone distinte, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. La convocazione delle assisi conciliari è provocata dalla dottrina ariana, propagata da Ario: per questo sacerdote di origine libica, che apparteneva al patriarcato di Alessandria, le persone divine della trinità non possono essere considerate uguali, dato che soltanto il Padre, in quanto non creato ma anche non generato sarebbe il «vero» Dio, mentre il Figlio, generato dal Padre, occuperebbe un posto intermedio tra Dio stesso e la creazione. Quello di Ario è di fatto un monoteismo assoluto. Le idee di Ario trovano molti seguaci e per dirimere la questione Costantino convoca un Concilio (il primo «ecumenico» in quanto coinvolge la Chiesa universale) presso il palazzo imperiale di Nicea. I vescovi partecipanti sono circa trecento (secondo alcune fonti 318, secondo altre meno di 250) e l’esito del Concilio è la formulazione del «simbolo niceno», vale a dire del «Credo» che precisa la fede della Chiesa e afferma che Gesù è «consustanziale al Padre» («homousios to Patrì») e ha la sua stessa natura. Abbiamo letto nel Codice da Vinci che la proclamazione della divinità di Cristo sarebbe avvenuta con un voto a maggioranza. Peccato che Dan Brown non dica che soltanto due vescovi non sottoscrissero il Credo: Teona di Marmarica e Secondo di Tolemaide. Entrambi vennero deposti e scomunicati dal Concilio, quindi esiliati da Costantino.

Ecco la formulazione del Credo niceno, che sarà poi ulteriormente sancita dal Concilio di Costantinopoli:

«Crediamo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.

E in un solo Signore Gesù Cristo, l’unigenito Figlio di Dio, generato dal Padre prima del tempo, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre, attraverso il quale tutte le cose sono state create; che per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e fu fatto carne dallo Spirito Santo e dalla Vergine Maria, e divenne uomo, fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, e patì e fu sepolto, e risorse il terzo giorno secondo le Scritture, e ascese al cielo, e siede alla destra del Padre, e tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti, e il cui regno non avrà fine.

E nello Spirito Santo, il Signore che dà la vita, che procede dal Padre, e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e parlò attraverso i profeti.

E in una sola Chiesa, santa, cattolica e apostolica.

Riconosciamo un solo battesimo per la remissione dei peccati. Attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».

Costantino non si limita a convocare il Concilio del Credo, ma manda l’«eretico» Ario in esilio. Ma non basta. L’arianesimo continua a diffondersi tra le comunità cristiane. Il grande oppositore di Ario è il vescovo Atanasio di Alessandria e l’imperatore tenta, invano, di proporre una soluzione di compromesso accettabile da entrambi. I vescovi che hanno sancito il Credo, però, si rifiutano di modificarlo e così Costantino, stanco di queste diatribe, riabilita l’esiliato Ario e manda in esilio lo stesso Atanasio. Quando viene battezzato sul letto di morte, l’imperatore riceve il battesimo nella fede ariana. La crisi si risolverà soltanto nel 381, con il Concilio di Costantinopoli, convocato dall’imperatore Teodosio, che spiegherà la «coesistenza» dell’unicità di Dio e la distinzione delle tre persone della Trinità in una sola natura. Il Credo costantinopolitano riprende quello di Nicea, afferma che lo Spirito Santo è «consustanziale» e «coeterno» con il Padre e il Figlio con cui forma la Santissima Trinità e riconosce al vescovo di Costantinopoli il posto d’onore dopo quello di Roma.

Dobbiamo ora chiederci: alla luce di questo, che fine fa l’affermazione di Dan Brown secondo la quale sarebbe stato il Concilio di Nicea, sotto la guida di Costantino, a divinizzare l’uomo Gesù? Chiunque abbia un minimo di conoscenza dei testi evangelici comprende al volo che ci troviamo davanti all’ennesima fiaba del nostro romanziere. Prendiamo per esempio gli scritti di Paolo, che sono databili tra il 50 e il 68 dopo Cristo, vale a dire almeno trecento anni prima del Concilio di Nicea. Ebbene, in questi scritti troviamo affermata senza tema di smentita la divinità di Cristo. Come nella Prima Lettera ai Corinzi (8, 5-6), che recita: «E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi e molti signori, per noi c’è un Dio solo, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose, e noi esistiamo per lui». Difficile davvero immaginare un uomo, per quanto grande profeta, «in virtù del quale esistono tutte le cose»! Lo stesso titolo «Signore» veniva spesso riferito a Dio, nella traduzione greca della Bibbia, detta «dei Settanta». Gesù, secondo l’apostolo Paolo, è coinvolto nella creazione del mondo. «Secoli prima di Nicea», scrive Darrell L. Bock, «un importante capo spirituale cristiano affermava la divinità di Gesù non solo mediante l’uso di un titolo, ma anche attraverso la descrizione del suo agire».

In altri brani, come nella Lettera ai Filippesi (2, 9-11), Paolo applica a Gesù i termini che il profeta Isaia utilizzava per Dio nella Bibbia ebraica: «Per questo anche Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome, affinché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, in terra e sotto terra, e ogni lingua proclami che Cristo Gesù è il Signore, a gloria di Dio Padre». Un passo che richiama quello di Isaia (45,23) nel quale il profeta riporta le parole di Dio: «L’ho giurato su me stesso; quello che esce dalla mia bocca è giustizia e non sarà revocato! Infatti davanti a me si piegherà ogni ginocchio e ogni lingua giurerà…».

Lasciamo Paolo, e prendiamo i vangeli. Come leggere il prologo di Giovanni, se non come un inno alla divinità di Cristo?

«In principio era il Verbo

e il Verbo era presso Dio

e il Verbo era Dio.

Questi era in principio presso Dio.

Tutto per mezzo di lui fu fatto

e senza di lui non fu fatto

nulla di ciò che è stato fatto…

E il Verbo si fece carne…».

Il Verbo divino che si fa carne è Gesù Cristo, il Nazareno, figlio di Maria, concepito per opera dello Spirito Santo, figlio del Padre, condivide con quest’ultimo la natura divina. Non è soltanto un uomo, un profeta, un predicatore.

Veniamo ora ai tre sinottici. E citiamo, a mo’ d’esempio, le parole pronunciate da Gesù davanti al Sinedrio, riunito nell’abitazione dei sommi sacerdoti Anna e Caifa.

«Allora il sommo sacerdote levatosi in mezzo all’assemblea interrogò Gesù dicendo: “Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?”. Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: “Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?”» (Marco 14, 60-61).

«Allora il sommo sacerdote gli disse: “Ti scongiuro, per il Dio vivente, perché ci dica se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”» (Matteo 26, 63).

«E gli dissero: “Se tu sei il Cristo, diccelo”» (Luca 22, 67).

È il momento culminante del processo giudaico, perché da questa risposta dipende la condanna di Gesù. La risposta, riportata dai vangeli, è questa e appare inequivocabile:

«Gesù rispose: “Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma da questo momento starà il Figlio dell’uomo seduto alla destra della potenza di Dio”» (Luca 22, 68-69).

«Gesù rispose: “Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo assiso alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo”» (Marco 14, 62).

La domanda di Caifa, osserva il biblista Gianfranco Ravasi, voleva «provocare Gesù a una semplice dichiarazione messianica, grave ma non blasfema, perché il Messia in Israele era considerato una creatura umana». E Giacomo Biffi, nel suo Gesù di Nazaret (edizioni Elledici) spiega: «Il “messia” per gli ebrei del tempo di Cristo era la figura che radunava in sé tutte le speranze di Israele: era colui che avrebbe ristabilito il regno di Davide, che avrebbe rinnovato e purificato il culto di Dio, che avrebbe fatto conoscere senza ambiguità la volontà di Iahvè e il suo disegno di salvezza, che avrebbe posto fine alla loro storia di dolore e di umiliazione». È interessante notare che il concetto di messia non era necessariamente connotato dalla prerogativa della unicità. Gli ebrei riconoscevano infatti molti messia nel loro passato. Davide, i re, i sacerdoti, i profeti, avevano di volta in volta ricevuto questo appellativo, che ricordava la consacrazione mediante l’unzione.

La colpa di «arrogata messianicità», cioè l’autoproclamarsi messia, prevedeva un duro castigo, ma non la condanna a morte. Nella sua risposta, invece, Gesù va ben oltre, fondendo insieme due testi biblici: il Salmo 110, che parla di un messia riconducibile all’orizzonte terreno e atteso da Israele lungo la linea dinastica di Davide, e un passo tratto dal capitolo 7 di Daniele. Quest’ultima citazione aveva un valore più misterioso per le autorità religiose giudaiche, in quanto presentava un «Figlio dell’uomo» messianico che «veniva sulle nubi del cielo», partecipando dunque della stessa vita di Dio. Presentando se stesso con delle caratteristiche divine, Cristo fa scattare l’accusa di bestemmia.

Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte (Marco 14, 63-64).

Compiendo il gesto rituale dello strapparsi le vesti, Caifa manifesta il suo sdegno più profondo per l’affermazione del Nazareno. «In conclusione», osserva Giuseppe Ricciotti nella sua Vita di Gesù Cristo (Mondadori, 1999), «l’inquirente aveva trionfato in ambedue i campi: in quello nazionale-politico, perché l’imputato aveva confessato di essere il Messia d’Israele; in quello rigorosamente religioso, perché aveva confessato di essere il vero Figlio d’Iddio. Questa seconda confessione era stata decisiva davanti al tribunale del Sinedrio; la prima verrà adottata e sarà ugualmente decisiva davanti al tribunale del procuratore romano».

Vorremmo ora proporre una pagina significativa del cardinale Giacomo Biffi, tratta dal già citato libro Gesù di Nazaret (pp. 101-104) e dedicata alla divinità di Cristo, che elenca una nutrita serie di citazioni evangeliche dalle quali questa traspare chiaramente.

«Pietro proclama: “Tu sei il Figlio di Dio”. Abbiamo qui il terzo, più alto e più sconcertante elemento della unicità di Gesù di Nazaret, cioè la sua divina personalizzazione o, più semplicemente, la sua divinità. Era storicamente impensabile che la divinizzazione di un uomo potesse nascere “per cause naturali” entro la cultura ebraica, totalmente, rigidamente, ferocemente monoteista. Eppure la Chiesa apostolica è arrivata a questa sconvolgente persuasione costretta dalla luce della risurrezione: “Tu sei il mio Signore e il mio Dio” (Giovanni 20,28), è la professione di fede dell’incredulo Tommaso, posta a traguardo della catechesi giovannea».

«La Chiesa apostolica», continua Biffi, «esprime in modo vario questa difficile fede, ma sempre con molta chiarezza e in tutte le sue diverse componenti:

– Paolo: Gesù è “di natura divina” (Filippesi 2,6) e ha ricevuto “il Nome che sta sopra tutti gli altri nomi” (Filippesi 2,9);

– Giovanni: Gesù è il Verbo che “era presso Dio” ed “era Dio” (Giovanni 1,1);

– Matteo: colloca il Figlio tra Dio Padre e lo Spirito di Dio, sullo stesso piano: “Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Matteo 28,19);

– La Lettera agli Ebrei: “del Figlio afferma: Il tuo trono, o Dio, sta in eterno” (Ebrei 1,8).

Alla luce della Pasqua la Chiesa apostolica è arrivata a questa convinzione, perché alla luce della Pasqua ha finalmente capito che Gesù stesso nei discorsi e negli atti della sua vita terrena aveva in maniera molteplice, anche se cauta, rivendicato a sé le prerogative divine:

– si pone sullo stesso piano del Legislatore del Sinai: “Io invece vi dico” (Matteo 5-7);

– si arroga il diritto di perdonare i peccati (Matteo 9,2; Luca 7,36-50);

– si ritiene il Giudice degli uomini e della storia:

– proclama di essere il “padrone del sabato” e più grande del tempio (Matteo 12, 6-8);

– dice di essere l’unico maestro, che non solo ha sempre ragione, ma “è la verità”;

– si colloca più in alto degli angeli (Marco 13,41);

– si propone come oggetto di un amore che deve essere più grande di quello del padre, della madre, della sposa, dei figli, dei fratelli (Matteo 10,37; Luca 14,26);

– si ritiene non uno dei figli di Dio, ma l’unico Figlio di Dio (Matteo 21,33-34);

– a suo dire Dio e lui sono esattamente sullo stesso piano: “Nessuno conosce il Figlio, se non il Padre; e nessuno conosce il Padre, se non il Figlio…” (Matteo 11,27; Luca 10,22).

La certezza storica – enunciata da tutti questi indiscutibili “loghia” (detti) – che Gesù stesso si è presentato come Dio, rende assolutamente improbabile la benevola, accomodante, “moderata” concezione che di Cristo hanno molti “benpensanti”, che vogliono poter apprezzare e lodare Gesù, come uomo saggio, giusto e grande, senza riconoscerlo come Signore e come Dio. Una tale “moderazione” è smentita da tutta la documentazione evangelica in nostro possesso: un uomo che dice le cose che lui dice, non può essere giudicato né saggio, né giusto, né grande, non può avere la nostra stima, non può essere onorato. A meno che non sia vero tutto quello che lui dice di sé e tutto quello che la Chiesa apostolica afferma di lui. Non si può dunque arrivare a un accordo generale sulla base di una generica stima di Cristo: o lo si rifiuta, disprezzandolo, o davanti a lui ci si inginocchia».

Come si vede, dunque, la divinità di Cristo è rintracciabile nei testi più antichi, scritti pochi decenni dopo i fatti. Attribuire al voto del Concilio di Nicea questa credenza, facendo intendere, come Dan Brown, che fino a quel momento Gesù era stato considerato soltanto un semplice uomo, significa affermare il falso. Libero Dan Brown, come chiunque altro, di non credere alla divinità di Cristo. Ma scrivere che questa era la credenza diffusa nei primi secoli del cristianesimo è semplicemente una bufala. L’ennesima, tra quelle raccontate nel Codice da Vinci. L’idea della divinità di Gesù, il figlio di Dio, non è stata decisa a maggioranza in una votazione – seppure una votazione conciliare – ma era espressa con evidenza e chiarezza nei vangeli che, lo ricordiamo, sono stati scritti pochi decenni dopo i fatti narrati.

Veniamo ora al canone delle Scritture, un tema al quale abbiamo già accennato nel capitolo precedente ma che ora esamineremo più nel dettaglio, per verificare se rispondano al vero le affermazioni di Dan Brown. Secondo il Codice da Vinci (e i suoi «ispiratori»), lo abbiamo visto, l’imperatore Costantino avrebbe commissionato e finanziato una nuova Bibbia, escludendo i vangeli che esaltavano gli «aspetti umani» di Cristo. Ricordiamo le parole precise già citate nel primo capitolo di questo libro, con le quali, nel romanzo, si parla del ruolo avuto dall’imperatore nella formazione del canone delle Scritture: «Costantino aveva innalzato la condizione di Gesù, erano passati quasi quattro secoli dalla morte di Gesù stesso, esistevano migliaia di documenti che parlavano della sua vita di uomo mortale. Per riscrivere i libri di storia, Costantino sapeva di dover fare un colpo di mano… commissionò e finanziò una nuova Bibbia, che escludeva i vangeli in cui si parlava dei tratti umani di Cristo e infiorava i vangeli che ne esaltavano gli aspetti divini. I vecchi vangeli vennero messi al bando, sequestrati e bruciati».

Anche in questo caso, il Codice da Vinci non la racconta giusta. Nel 397 il vescovo Atanasio fu il primo a proporre una lista dei ventisette libri del Nuovo Testamento e fu anche il primo a usare il termine «canone» per la sua raccolta. Tale lista, dunque, era stata stilata dopo il Concilio di Nicea, che come abbiamo visto si era svolto sotto l’egida di Costantino nel 325. Va però anche aggiunto che in realtà la selezione dei testi cosiddetti canonici si era già sostanzialmente conclusa parecchio tempo prima. Si tratta di un processo graduale, che avviene nel II, III e IV secolo. Tra l’altro, scrivere, come fa Dan Brown, che i manoscritti più antichi del Nuovo Testamento risalgono tutti al IV secolo non è corretto, dato che esistono alcune decine di papiri (e si tratta anche di frammenti di lunghezza considerevole) databili nel II e nel III secolo. Ecco, in sintesi, le tappe principali dell’istituzione del canone delle Scritture cristiane, così com’è stato efficacemente riassunto da Marie-France Etchegoin e Frédéric Lenoir, nel loro libro Inchiesta sul Codice da Vinci (Mondadori, 2005): Giustino martire, che scrive attorno all’anno 150, riferisce che a Roma «si leggevano le Memorie degli apostoli». Si sa che nel II secolo circolavano infatti vari testi, nei quali erano raccontati i fatti della vita di Gesù e le sue parole, insieme con altri scritti apocalittici attribuiti agli stessi apostoli. All’epoca, bisogna precisarlo, nessuna autorità o istituzione ecclesiastica aveva ancora stabilito l’autenticità o meno dei testi in circolazione. Il primo personaggio che redige una selezione rigida è Marcione (85 circa – 160), figlio del vescovo di Sinope, accolto dalla comunità di Roma, il quale rifiuta l’eredità ebraica del cristianesimo e l’Antico Testamento concentrandosi invece sul vangelo di Luca – in una versione da lui adattata – e su alcune lettere di Paolo. Oltre a sostenere l’irriducibilità di giudaismo e cristianesimo, riterrà come soltanto apparente l’incarnazione di Cristo (docetismo). Sarà considerato eretico e scomunicato, e fonderà una chiesa sopravvissuta fino al V secolo. La sua iniziativa contribuirà a incoraggiare una forma di selezione dei sacri testi.

Un altro documento importante, che serve a smentire la tesi di Dan Brown, è il Frammento muratoriano, che prende il nome da Ludovico Antonio Muratori, storico, bibliotecario ed erudito che nel 1740 ha scoperto questo importante documento risalente all’VIII secolo, nel quale si fa riferimento a «Pio, vescovo di Roma morto nel 157» e si afferma l’esistenza, in quell’epoca, dei quattro vangeli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni, degli Atti degli Apostoli attribuiti a Luca e delle tredici lettere di Paolo. Il Pio vescovo di Roma è Pio I.

Nel frammento, che consta di ottantacinque righe, sono pure indicati alcuni criteri di selezione per i testi canonici: la loro antichità, vale a dire che essi devono essere il più possibile vicini dal punto di vista temporale ai fatti raccontati, e il loro legame diretto con la predicazione degli apostoli. Criteri che, come il lettore avrà già compreso, di fatto sbaragliano molta produzione apocrifo-gnostica in favore dei quattro vangeli canonici, scelti dunque ben prima di Costantino, circa duecento anni prima del Concilio di Nicea, e non sulla base della loro «pericolosità» circa i contenuti. Non si trattava cioè di scartare o nascondere inesistenti vangeli che ci parlavano delle nozze di Gesù con la Maddalena o dell’umanità di Cristo, semplice profeta e non Dio, favorendo invece gli scritti più innocui e utili alla dottrina dominante. No. I criteri sono precisi, hanno una loro logica, e si richiamano all’antichità del testo e alla sua comprovata origine apostolica, come garanzia di fedeltà ai fatti narrati.

Qualche decennio dopo il pontificato di «Pio, vescovo di Roma morto nel 154», verso la fine del II secolo, il vescovo di Lione Ireneo prepara una lista contenente i quattro vangeli canonici che secondo lui rappresentano la «buona novella». Ireneo si scaglia pure contro le eresie e in particolare contro la gnosi che attacca la vera fede cristiana. Ricordiamo ancora una volta che mancano circa centocinquant’anni al Concilio di Nicea, convocato dall’imperatore Costantino. Ancora, nella Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, scritta verso l’anno 325, sono indicati i libri letti nelle Chiese d’Oriente alla fine del II secolo. Vale a dire, i quattro vangeli canonici, gli Atti degli apostoli, le lettere di Paolo e la lettera agli ebrei, le prime lettere di Pietro e Giovanni e alcune altre opere che non saranno poi incluse nel canone definitivo, come l’Apocalisse di Pietro, che pur non essendo contrarie alla dottrina cristiana non sono considerate «ispirate» da Dio. È bene precisare che tra gli apocrifi non ispirati che vengono utilizzati non ci sono vangeli gnostici, ma testi comunque in linea con la dottrina cristiana così come si era andata definendo nei primi secoli. Dunque ne dobbiamo dedurre che già allora una decisiva selezione era stata fatta e non includeva i testi così cari a Dan Brown, anche perché, forse, questi non erano ancora stati redatti.

Dunque sia a Roma, nel 154, sia nelle Chiese d’Oriente, più o meno negli stessi anni, il canone delle Scritture del Nuovo Testamento in vigore era sostanzialmente quello degli scritti che saranno considerati canonici nei secoli successivi fino ai nostri giorni. Come avrebbe fatto Costantino, che all’epoca non era ancora nato, a compiere la sua azione selezionatrice? Ha potuto forse viaggiare con una macchina del tempo, superando la barriera di quasi due secoli? Chiediamoci piuttosto perché queste elementari informazioni – per reperire le quali non è necessario tuffarsi per anni nel dedalo degli studi neotestamentari, dato che sono reperibili in una buona enciclopedia – non fossero a conoscenza dell’autore del Codice da Vinci.

Nel corso del IV secolo (arriviamo così finalmente a Costantino!) si pone una volta per tutte il problema di selezionare definitivamente i testi canonici da quelli che non lo sono. Un lavoro che vede all’opera i cosiddetti concili regionali. Ai già citati criteri dell’antichità, dell’apostolicità e dell’autenticità della fede proclamata, se ne aggiunge un altro, molto significativo, vale a dire quello della diffusione universale: per la catechesi e la liturgia saranno cioè adottati quei testi già maggiormente diffusi dalle comunità cristiane in Occidente e in Oriente. Nel 328 il Concilio di Roma stila l’elenco definitivo, con i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, il Concilio di Ippona nel 393 conferma quella scelta e infine nel 397 il Concilio di Cartagine vi aggiunge l’Apocalisse di Giovanni apostolo stabilendo che al di fuori di queste «Scritture canoniche nulla deve essere letto nella Chiesa sotto il nome di divine Scritture».

Non ci sono, come si vede, colpi di mano. Non ci sono roghi che bruciano antichi testi «pericolosi» per salvare solo quelli «innocui». Il processo è lungo e articolato, dura circa tre secoli, si conclude in modo abbastanza prevedibile visti i criteri che si erano andati affermando. L’idea di Dan Brown finisce male. «C’è un unico elemento storicamente vero nella tesi del Codice da Vinci», scrivono Marie-France Etchegoin e Frédéric Lenoir, «una volta costituita la Bibbia cristiana, le tesi gnostiche vengono sistematicamente condannate…». Il problema degli scritti canonici si porrà nuovamente con la riforma protestante. Ma neanche questa riuscirà a far portare in vigore gli apocrifi gnostici, che continuano a essere considerati inattendibili.

Qualche breve considerazione, alla fine di questo capitolo dedicato a Costantino e alla formazione del canone dei vangeli, lo merita il tema del «femminino sacro»¸ del culto della dea madre che sembra ossessionare Dan Brown e i protagonisti del suo romanzo, che vedono sacri Graal, simboli sessuali e vagine stilizzate in ogni dove, persino nei cartoni animati di Walt Disney. È accertato, dagli studiosi della preistoria, che per un lungo periodo, tra il paleolitico e il megalitico, le popolazioni del nostro Continente e del Medio Oriente veneravano una sorta di grande dea madre, una divinità femminile. Nelle società primitive, il potere di dare la vita era infatti considerato come qualcosa di divino e di misterioso e la stessa organizzazione della vita di questi nostri progenitori era di tipo matriarcale. «In Europa occidentale», scrivono ancora Marie-France Etchegoin e Frédéric Lenoir, «la venerazione delle dee è terminata probabilmente qualche migliaio di anni prima di Cristo, quando gli Indoeuropei invasero l’Europa da est portando con loro la credenza in divinità maschili. Il culto delle dee si è unito progressivamente al culto di questi dèi dando vita a una grande varietà di religioni pagane».

È ovviamente del tutto priva di fondamento la tesi di Brown, secondo la quale sarebbe stato Costantino a sostituire l’iniziale «femminino sacro» o «principio femminile» vigente nel cristianesimo delle origini con il principio maschile o maschilista. La società patriarcale, che aveva sostituito quella matriarcale, era diventata vincente già da moltissimi secoli. Dunque non ci sono cambi in corsa, o sotterfugi, né tantomeno segreti conservati gelosamente da pochi iniziati: l’idea che inizialmente il cristianesimo si fondasse sul principio femminile e che l’uomo Gesù avesse stabilito di lasciare alla moglie la guida della Chiesa, è una pura e semplice invenzione, antistorica, priva di qualsiasi riscontro. L’ennesima, nelle pagine del romanzo di Dan Brown.



http://apologetica.altervista.org/processo_codice_da_vinci_costantino.htm

martedì 23 settembre 2008

Le bugie del Codice da Vinci...e ciò che c’è dietro questo romanzo

Le bugie del Codice da Vinci...e ciò che c’è dietro questo romanzo
di Corrado Gnerre

La trama del Romanzo

Jacques Saunière, anziano studioso del culto pagano della Dea Madre e del sacro femminino e curatore del Louvre, viene assassinato in una delle sale del museo da un “monaco” appartenente all’Opus Dei.
Prima di morire, Saunière lascia degli indizi per comunicare un grande segreto.
Per decifrare questi indizi, la polizia parigina convoca il professor Langdon, docente dell’Università di Harvard, che in quei giorni si trova a Parigi.
Intanto arriva sul posto del delitto anche l’agente di polizia Sophie Neveu, nipote dello stesso Saunière, che capisce che gli indizi lasciati dal nonno sono rivolti a lei.
La giovane, insieme al professor Langdon (che intanto è sospettato dalla polizia di essere l’omicida di Saunière), inizia un percorso d’indagini in cui sarà svelato un grande segreto.
I due riescono a decifrare due indizi lasciati dalla vittima. La frase “O, draconian devil! Oh, lame saint!”, che è l’anagramma di “Leonardo da Vinci! The Mona Lisa!”; e anche le iniziali “PS”, che stanno per “Priorato di Sion”, associazione segreta di cui Saunière era Gran Maestro.
Questo Priorato di Sion sarebbe una setta antichissima nata per custodire un grande segreto. Ad essa sarebbero appartenuti importanti personaggi. Tra questi, Leonardo da Vinci, che ne sarebbe stato Gran maestro tra il 1510 e il 1519.
Il Priorato avrebbe sempre avuto una venerazione pagana per il culto del principio femminile.

Il grande segreto custodito è:

1. L’imperatore Costantino (280-337) volle definitivamente distruggere la religione pagana del femminino sacro e, per fare questo, “inventò” la divinità di Gesù, fece occultare i veri vangeli (quelli gnostici) e promosse solo i vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni (cioé i vangeli canonici) perché questi presenterebbero un Gesù poco umano.

2. Gesù non era Dio, ma un semplice predicatore che addirittura si sposò con Maria Maddalena, da cui ebbe anche dei figli (la stirpe del sang rèal, del sangue reale).

3. Gesù indicò la stessa Maria Maddalena come capo della sua chiesa (priorità del principio femminile).

4. Questa “successione femminile” non fu però accettata dagli apostoli che, per impadronirsi della chiesa, decisero di far fuori Maria Maddalena che fu costretta a fuggire.

5. La discendenza di Gesù si stanziò in Francia dando origine nel V secolo alla dinastia dei Merovingi.

6. Questo grande segreto è custodito dal Priorato di Sion e da tutti i suoi Gran Maestri, fra cui l’assassinato Saunière.

Il Romanzo dice che la Chiesa cattolica, per evitare che questo segreto fosse svelato, non ha esitato nel corso dei secoli a commissionare omicidi. Questo accadrebbe ancora ai nostri giorni anche grazie ad alcune organizzazioni ecclesiali, come l’Opus Dei esplicitamente citata nel Romanzo.

Il tassello che fa cadere tutti gli altri: la datazione dei Vangeli canonici

Dan Brown, per la costruzione del suo romanzo, si richiama ad una teoria, che però è falsa. La teoria è questa: i vangeli cosiddetti “gnostici” ed “eretici” sarebbero i “veri” vangeli, mentre quelli cosiddetti “canonici” (Matteo, Marco, Luca e Giovanni) la Chiesa li avrebbe successivamente ufficializzati proprio perché non parlerebbero della vera vita di Gesù.

Attenzione: questa convinzione avrebbe una sua logica se davvero i vangeli gnostici ed eretici fossero contemporanei a quelli canonici. Se così fosse, effettivamente sarebbe difficile poter dire quali vangeli dicano davvero la verità.
Dan Brown, però, nasconde un fatto ormai indiscutibile e cioé che i vangeli canonici (Matteo, Marco, Luca e Giovanni) sono non solo molto anteriori ai vangeli gnostici ed eretici (che partono dal II secolo inoltrato per arrivare fino al IX), ma anche molto vicini alla vita di Gesù.

Schematizziamo in maniera tale che il lettore possa capire meglio.

Primo: fino a qualche decennio fa gli studiosi erano concordi nel ritenere che i vangeli canonici fossero databili tra gli anni 70 e 90, il che vuol dire che sarebbero stati scritti in un periodo che va dai 35 ai 55 anni dopo la vita di Gesù, cioé in un periodo in cui erano ancora in vita i testimoni oculari dei fatti.

Secondo: recenti studi hanno ulteriormente abbassato la datazione dei vangeli canonici.

Terzo: nel campo linguistico si è dimostrato che i testi in greco dei vangeli canonici che noi possediamo sono la traduzione di testi più antichi scritti in ebraico e in aramaico, ovvero la lingua parlata da Gesù. La dimostrazione verte sulla costruzione di alcune frasi e sull’uso di alcune parole ebraiche che non esistono in greco come “amen”, “alleluja”, ecc. e sulla costruzione del periodo. Ora –riflettiamo- se la prima redazione è in aramaico, vuol dire che i vangeli canonici sono stati scritti in un periodo in cui l’aramaico aveva ancora un valore, ovvero il periodo dei primissimi anni della Chiesa. Infatti, le comunità cristiane degli anni più lontani dalla vita di Gesù utilizzeranno la lingua greca.

Quarto: risultati utilissimi sono emersi anche nel campo papirologico. La Provvidenza ha donato delle scoperte di frammenti di papiri antichissimi dei vangeli canonici, databili a pochi anni dalla morte e Resurrezione di Gesù: il 7Q5, ritrovato a Qumran; e il P64, conservato nel Magdalen College di Oxford. Diciamo qualcosa sul 7Q5. A Qumran, una località sul Mar Morto, esisteva una comunità di monaci esseni. Tra il 66 e il 68 questi monaci fuggirono da Qumran dopo che gli eserciti romani, al comando prima di Vespasiano e poi di Tito, assediarono Gerusalemme. Questi monaci prima di fuggire decisero di nascondere la loro biblioteca in alcune grotte vicine, con la speranza di tornare al più presto e riprendere i testi. Nel 1947 (quasi 1900 anni dopo!) la Provvidenza volle che un pastore arabo, inseguendo una pecora che si era smarrita (immagine molto evangelica!), entrò in una di quelle grotte e scoprì un vaso pieno di manoscritti antichi. Dette la notizia e molti studiosi si catapultarono a Qumran. Un frammento trovato nella grotta numero 7 e catalogato con il numero 5 (perciò 7Q5, “Q” sta per “Qumran”) ha riservato una grande sorpresa. Nel 1972 un celebre papirologo spagnolo, il gesuita padre José O’Callaghan, scoprì che questo frammento è di un testo del Nuovo Testamento, precisamente si tratta dei versetti 52-53 del capitolo VI del Vangelo di Marco. L’identificazione di padre O’Callaghan è stata confermata dal computer con il potente programma Ibykus contenente tutta la letteratura greca antica. Dunque, certamente il frammento è stato scritto prima del 66-68, cioé quando fu nascosto dai monaci esseni che avevano deciso di fuggire; ma l’esame della scrittura ci dice che è addirittura anteriore agli anni 50, cioé quando lo stile cosiddetto “ornato erodiano”, con cui è scritto, non venne più utilizzato. A questo poi si aggiunge che il 7Q5 è una traduzione greca dall’aramaico. Pertanto la prima redazione del Vangelo di Marco fu scritta ben prima del 50, forse ad appena 5-8 anni dalla vita di Gesù!

Facciamo questo esempio: se scrivessi di Mario Rossi che è morto venti anni fa, non potrei permettermi di alterare la verità storica, perché sarebbero ancora in vita coloro che lo hanno conosciuto. E costoro potrebbero benissimo contestarmi ciò che scrivo. Ma se scrivessi di un Mario Rossi vissuto due secoli fa, potrei dire tutto ciò che vorrei, perché nessuno ormai mi potrebbe contestare ciò che scrivo sulla base della testimonianza.

Altro esempio: non bisogna essere storici di professione per sapere che dovendo fare una ricerca su un personaggio, devono essere ricercati documenti quanto più vicini alla sua vita. Se non si trovano documenti vicini, si possono eventualmente utilizzare documenti più lontani, ma con l’onestà intellettuale di dire che c’è un buco tra la vita del personaggio e i documenti trovati. Ma se si trovano documenti vicini e documenti posteriori, non si possono scartare i primi per privilegiare unicamente i secondi. Così non si farebbe storia, ma fantasia!
Ebbene, per conoscere Gesù bisogna rifarsi ai vangeli canonici (Matteo, Marco, Luca e Giovanni), per un motivo molto semplice: perché questi sono i più vicini alla sua vita!
La datazione dei vangeli canonici e il sapere che quelli gnostici ed eretici sono molto posteriori sono argomenti che da soli basterebbero a smontare tutto il romanzo del Codice da Vinci. E’ un pò come far cadere il primo tassello di un domino; fatto cadere questo, cadono inevitabilmente tutti gli altri.
Ma –chiediamoci- come mai la figura di Gesù sarebbe stata così alterata nei secoli successivi dai vangeli gnostici ed eretici? Qui possiamo e dobbiamo rispondere coinvolgendo la Fede. Il santo è il capolavoro di Dio e se si vuole colpire l’Artista va imbrattata l’opera d’arte. Allo stesso modo il diavolo ha sempre cercato di rovinare le meraviglie della santità: quale santo non è stato calunniato? Ma se il diavolo cerca di calunniare il santo, a maggior ragione ha sempre tentato di calunniare Colui che è il Santo dei Santi, cioé Gesù.

Ricapitolando: i fatti dimostrano che il Cristianesimo è storico ed è storico il legame di Cristo con la Sua Chiesa, che è quella apostolica, cattolica e romana. La Chiesa, cioé, che da sempre ha avuto l’autorità di giudicare le Scritture.
Insomma, più di dilungarsi nel confutare tutte le sciocchezze presenti nel Codice da Vinci, va ricordato e ribadito che ciò che afferma la Chiesa cattolica è ciò che affermano i vangeli canonici e che questi sono stati scritti da chi ha conosciuto Gesù e ha convissuto con Lui!
Se si vuole, ci si potrebbe fermare qui e non andare più oltre.
Se il lettore ha capito bene e ha conservato nella sua memoria, già l’utilizzazione di questo argomento basta a smontare tutto il romanzo.
Se poi si vogliono più argomenti per contrastare questo romanzo, ecco qualcosa in merito alle singole bugie in esso contenute. Attenzione: per ogni “bugia” si sarebbe potuto dire molto di più, ma questo opuscolo vuole essere solo uno strumento di rapidissima lettura.

Prima bugia
Maria Maddalena sposa di Gesù

Nel Codice da Vinci si dice che Gesù “doveva” essere sposato, perché la cultura del tempo disapprovava il celibato.
Ciò è falso e viene da chiedersi come mai un docente universitario (Dan Brown) possa dire una simile sciocchezza.

Come sempre schematizziamo per facilitare la comprensione:

Primo: basterebbe ricordare la già citata Comunità degli Esseni a Qumran. Plinio il Vecchio e Giuseppe Flavio attestano che quei monaci (che non erano cristiani ma di fede giudaica) vivevano nella castità completa.

Secondo: lo stesso Giovanni Battista viene presentato dalle fonti come una sorta di eremita, che viveva da solo e nessuna di queste fonti ci dice che il suo vivere da solo fosse, per questo, malvisto.

Terzo: prendiamo delle parole di Gesù dal Vangelo di Matteo (19,12):“Ci sono eunuchi che così sono nati dal ventre della madre; ci sono eunuchi resi tali per mano umana; e ci sono eunuchi che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca.” Qui Gesù dice a chiare lettere che per dedicarsi alle cose di Dio bisogna vivere casti. Si potrebbe obiettare: ma è un vangelo canonico. Non vuol dire nulla, perché, secondo Dan Brown, i vangeli canonici non sarebbero di per sé falsi piuttosto sarebbero inutili perché eviterebbero di dire molte cose.

Quarto: dire che Gesù doveva essere sposato perché altrimenti sarebbe andato contro le consuetudine finisce con l’essere proprio una contraddizione per chi afferma che si sarebbe sposato con Maria Maddalena. Sposarsi a trent’anni, quando conobbe la Maddalena, è fuori da tutte le consuetudini ebraiche, ove invece l’uomo si sposava tra i diciotto e i venti anni. José Antonio Ullate Fabo nel suo libro Contro il Codice da Vinci (Sperling & Kupfer Editori, 205, pp.91-92) scrive: “Che senso avrebbe che Gesù fosse arrivato celibe a trent’anni e si fosse sposato solo allora? Se davvero il celibato fosse stato uno scandalo insopportabile per gli ebrei, come sostengono i sapienti personaggi di Brown, quando Gesù fosse arrivato all’età giusta per prendere moglie san Giuseppe e la Vergine gli avrebbero trovato una ragazza di Nazaret, e si sarebbe sposato con lei prima dei diciotto anni, per esempio. La cosa assurda è voler vedere ‘sensato’ il matrimonio con Maria Maddalena quando è la cosa più inverosimile.”

Seconda bugia
Costantino avrebbe inventato la divinità di Cristo

Dan Brown dice che Costantino (280-337) avrebbe voluto la divinizzazione di Gesù per legittimare ancor più il Cristianesimo e farne la religione dell’Impero per rafforzare l’Impero stesso. Costantino per “divinizzare” Gesù avrebbe utilizzato il Concilio di Nicea (325), dove –dice Brown- si raggiunse questa decisione grazie ad un solo voto di maggioranza.

Primo: non fu Costantino a fare del Cristianesimo la religione ufficiale dell’Impero, ma Teodosio con il famoso Editto di Tessalonica del 380.

Secondo: le fonti ci dicono che i vescovi che parteciparono al Concilio di Nicea furono tra i 250 e i 318...e altro che maggioranza di un voto! A votare contro la definizione della consustanzialità (cioé il Figlio è Dio come il Padre) furono solo due vescovi: Teone di Marmarica e Secondo di Tolemaide (cfr.A.TORNIELLI, Processo al Codice da Vinci, Milano, 2006, p.125).

Terzo: nel Concilio di Nicea si discusse sì della divinità di Cristo ma non perché questa costituisse una novità, bensì perché questa convinzione era minacciata dalla diffusissima eresia ariana che negava appunto il Mistero dell’Incarnazione. La fede nella divinità di Gesù era pienamente presente e diffusa sin dall’inizio.

Quarto: i vangeli canonici (che abbiamo visto essere stati scritti immediatamente dopo la vita di Gesù) lo attestano chiaramente. Oltre al classico esempio del prologo di San Giovanni: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio...”, ci sono tante altre espressioni in cui Gesù si fa uguale al Padre, per esempio: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Giovanni 10,30). Obiezione: ma come mai nei Vangeli abbiamo anche dichiarazioni in cui Gesù si fa inferiore al Padre? La risposta è semplice. Quando a Gesù chiedono qualcosa riguardante il suo essere, risponde come Verbo facendosi uguale al Padre; quando invece chiedono qualcosa sulla sua missione, non risponde solamente come Verbo ma come Verbo incarnato; e Il Verbo incarnato non è coeterno al Padre, ma ha avuto inizio nella storia: nel grembo della Vergine Maria!

Terza bugia
Costantino avrebbe occultato i “veri” vangeli

Altra bugia di Dan Brown: Costantino, sempre con il Concilio di Nicea, avrebbe deciso l’occultamento dei vangeli gnostici e ufficializzato quelli che oggi vengono chiamati canonici (Matteo, Marco, Luca e Giovanni).
Anche in questo caso Dan Brown prende (o vuole prendere) una cantonata.

Primo: le fonti ci dicono che il Concilio di Nicea non si è occupato del canone delle Scritture.

Secondo: già nella metà del II secolo il canone delle Scritture del Nuovo Testamento in vigore era pressoché uguale a quello definitivo. Ricordiamo che nella seconda metà del II secolo mancavano ancora 150 anni all’impero di Costantino!

Terzo: Dan Brown dimostra di non conoscere il cosiddetto Frammento muratoriano, chiamato così perché prende il nome da Ludovico Antonio Muratori che nel 1740 scoprì questo documento che risale all’VIII secolo e dove si parla di Pio (è Pio I), vescovo di Roma morto nel 157 e anche dell’esistenza dei quattro vangeli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni, degli Atti degli Apostoli attribuiti a Luca e delle tredici Lettere di Paolo. Dove però il Frammento è interessante è quando elenca alcuni criteri di selezione per i testi canonici. Primo tra tutti l’antichità (cioé devono essere il più possibile vicini ai fatti narrati). Con questo criterio tutta la produzione gnostica ed eretica va a carte quarantotto!

Quarto: non c’è solo il Frammento muratoriano. Nella sua Storia ecclesiastica, che Eusebio di Cesarea scrisse nel 325, è scritto che nel II secolo (quindi molto prima di Costrantino!) nelle Chiese d’Oriente le Scritture lette erano: i quattro Vangeli canonici, gli Atti degli Apostoli, le Lettere di Paolo, le prime Lettere di Pietro e di Giovanni...e anche alcuni scritti che non saranno poi inclusi nel canone definitivo. Ma tra questi ultimi non compaiono affatto i vangeli gnostici ed eretici!

Quarta bugia
l’antichità e la storicità del Priorato di Sion

Dan Brown dice che per difendere il segreto della vera vita di Gesù e la sua discendenza, nel corso della storia sarebbe nata una misteriosa organizzazione: Il Priorato di Sion. La nascita risalirebbe –sempre secondo Dan Brown- nientedimeno che al 1099 con il re crociato Goffredo di Buglione. Al Priorato sarebbero stati collegati i Templari e successivamente anche la Massoneria. Molti uomini illustri sarebbero stati Gran Maestri di questa associazione segreta. Fra questi Leonardo da Vinci, che ne sarebbe stato a capo tra il 1510 e il 1519. Questo Priorato di Sion sopravviverebbe ancora oggi e sopravviverebbero anche i discendenti di Gesù in famiglie aventi soprattutto i cognomi Plantard e Saint Clair.

Primo: il Priorato di Sion, come sigla, non è comparso in pieno medioevo (nel 1099) per poi rimanere per tanti secoli nascosto, ma è comparso nel 1956: dunque “solo” (si fa per dire!) 900 anni più tardi!

Secondo: non fu fondato da Guglielmo di Buglione, ma da un Plantard, precisamente da Pierre Athanase Plantard (1920-200), un personaggio tutt’altro che di nobili imprese come Goffredo di Buglione. Pierre Athanase Plantard fu prima sostenitore del governo collaborazionista di Vichy e ammiratore di Adolf Hitler; poi, tra il 1956 e il 1957, dovette scontare dodici mesi di carcere perché accusato di corruzione di minorenni, tant’è che la moglie volle divorziare da lui.

Quinta bugia
Un codice segreto nelle opere di Leonardo da Vinci

Leonardo da Vinci, Gran Maestro del Priorato di Sion, avrebbe nelle sue opere lasciato indizi di questa sua appartenenza. E’ vero? Assolutamente no.

Primo: Judith Veronica Field, docente alla University of London e presidentessa della Leonardo da Vinci Society, ha dichiarato “assurda” l’idea che nelle opere leonardiane vi sia un codice segreto.

Secondo: le inesattezze di Dan Brown sulle opere leonardiane sono tali che parlare di una sua così grande conoscenza da esser capace di individuare o di avvalorare un codice segreto è quanto mai fuori posto. Sentite questa: Dan Brown nel suo romanzo dice che il quadro di Leonardo La Vergine delle rocce è alto un metro e mezzo, quando invece è più di due metri! In un suo articolo Rino Cammilleri (Il Timone, n.39) cita Cynthia Grenier che sul Weekly Standard dell 22.9.2003 ha scritto su Dan Brown: “Per favore, qualcuno fornisca a quest’uomo e ai suoi editori le lezioni di base sulla storia del cristianesimo e una cartina geografica.” E Peter Millar, sul Times del 23.6.2003: “Questo libro è, senza dubbio, il più stupido, inesatto, poco informato, stereotipato, scombinato e popolaresco esempio di ‘pulp fiction’ che io abbia mai letto.”

Terzo: una considerazione che non ci sembra peregrina, ma che nessuno ha fatto. Dan Brown dice che nell’Ultima Cena di Santa Maria delle Grazie, colui (anzi colei) che sta a fianco non sarebbe Giovanni ma la Maddalena, ciò perché il personaggio ha un volto troppo femminile. La risposta sta nel fatto che Giovanni era il discepolo giovane, che aveva conosciuto Gesù direttamente e non come gli altri che avevano “vissuto” e alcuni erano anche sposati. Ma poi (ecco la considerazione): se fosse realmente la Maddalena, perché in questo affresco i personaggi sono tredici e non quattordici? Se a fianco a Gesù fosse la Maddalena, sarebbero dovuti essere in quattordici!

Sesta bugia
la veridicità di fantasiosi documenti

In una pagina (precisamente la 9 dell’edizione italiana, che poi –guarda un pò- nelle successive ristampe è stata modificata) si afferma che tutta la storia sarebbe confermata da documenti inoppugnabili, documenti che sarebbero stati ritrovati nel 1975 nella Biblioteca Nazionale di Parigi.

Primo: i documenti sono stati sì ritrovati, ma –come ampiamente dimostrato per ammissione degli stessi interessati- questi documenti sono stati “ritrovati” proprio dalle persone che li avevano nascosti nella stessa Biblioteca.

Secondo: è certissimo –come conferma il noto studioso Massimo Introvigne- che non si tratta di documenti antichi ma di falsi moderni.

Che cosa davvero vuol dirci Il Codice da Vinci?

Accanto alle bugie nel Codice da Vinci ci sono delle verità?
Più che verità, si può dire che questo romanzo mette in evidenza alcune verità nascoste, che pochi dicono...ma che sono verità.
Certamente il romanzo, e più ancora il film, sono una grande e riuscitissima operazione commerciale, ma –a nostro parere- non sono solamente questo.
Il racconto, così come è costruito, giocando in maniera molto ambigua sull’elemento né del falso né del vero ma del “verosimile” si rende funzionale ad un progetto. Un progetto che si esprime a sua volta funzionale al radicamento e al trionfo di una mentalità ben precisa.
Per semplificare si può utilizzare questo esempio: s’immaginino due fiumi che scorrono per affluire e dare acqua ad un grande lago. I fiumi sono due “correnti” che insieme si rendono funzionali al raggiungimento di una mèta ben precisa, che è il trionfo di quella mentalità a cui abbiamo alluso prima.

I due fiumi:
il relativismo e il sincretismo

I due fiumi sono il relativismo e il sincretismo.

Il relativismo è la convinzione che la verità debba ridursi ad opinione: non possono esistere verità assolute, ma tutto è relativo e discutibile.

Il sincretismo è la convinzione che le religioni possano o debbano fondersi. Oggi è molto diffusa la religione fai-da-te: mi piace qualcosa del Cristianesimo, me lo prendo; mi piace qualcosa del Buddismo, me lo prendo; mi piace qualcosa del Taoismo, me lo prendo; ecc...poi si mescola il tutto e viene fuori una religione a proprio gusto.

Con il relativismo e il sincretismo il Cristianesimo si nullifica. Che ne rimane della frase di Gesù: Io sono la via, la verità, la vita? Con il relativismo Gesù non è più la verità, ma una verità; e con il sincretismo non è più la via e la vita, ma una via e una vita.
Il Codice da Vinci cerca di ridurre il Cristianesimo da “fatto” a “mito”, attaccando i suoi fondamenti storici. Ma se il Cristianesimo diviene mito e Gesù un personaggio mitico, allora se ne annulla qualsiasi pretesa totalizzante e assoluta.

Il grande lago:
il trionfo della gnosi

Abbiamo visto come il Gesù di Dan Brown non è il Dio incarnato ma una sorta di predicatore, di capo-popolo, che però aveva un’idea ben precisa. L’idea era quella di voler restaurare, anche in Palestina (la terra del monoteismo per eccellenza) l’antico culto del femminino sacro, legato a sua volta al culto della Grande Dea. Dunque, un Gesù non cristiano ma paradossalmente pagano.
Ebbene, questa esaltazione del paganesimo è perfettamente coerente con la mentalità gnostica.
Per chi non lo sapesse già, con il termine Gnosi s’intendono tutte quelle credenze pseudo-religiose che ritengono che l’uomo possa raggiungere la salvezza attraverso la conoscenza (gnosis, infatti, vuol dire “conoscenza”).
La Gnosi (che preesisteva al Cristianesimo e che poi ha cercato di contaminarlo) crede in un divino impersonale (chiamato pleròma o plèroma a secondo dell’accentuazione latina o greca). Da questo divino impersonale sarebbero venute fuori delle “scintille” spirituali, che poi sarebbero state “imprigionate” nella materialità (cioé nei corpi) da un dio inferiore, una sorta di demiurgo cattivo.
Stando così le cose, per la Gnosi l’uomo avrebbe una componente divina (il suo spirito), ma questa componente divina sarebbe purtroppo “imprigionata” in un corpo. Concezione, questa, diametralmente diversa da quella cristiana che invece concepisce l’uomo come sintesi di spirito e corpo.
Ma per la Gnosi chi sarebbe questo demiurgo cattivo? Il Dio tradizionale e personale. E, per quanto riguarda il Cristianesimo, sarebbe Colui che viene chiamato Dio Padre!
La Gnosi, dunque, dice all’uomo che non solo non è inferiore a Dio, ma che lui stesso è Dio; e perché questo si realizzi pienamente, l’uomo deve quanto prima spogliarsi della sua individualità e corporeità.
A questa conoscenza specialissima (convincersi di essere Dio nel proprio spirito) possono aspirare in pochi (ecco perché la Gnosi è il comune denominatore di molte sette esoteriche) ma questa conoscenza, e solo questa, permetterebbe la vera salvezza.
Ora –è chiaro- questa pretesa gnostica va di pari passo con la mentalità moderna e postmoderna che esigono che l’uomo trovi solo in se stesso la risposta e il senso della sua vita; che esigono che l’uomo non si assoggetti a nessuna autorità (Dio), ma che faccia di se stesso e della sua coscienza l’unico criterio di giudizio.
Ma torniamo al Gesù di Dan Brown. Egli non è il Dio incarnato ma si presenta molto vicino al Gesù così come lo ha pensato e lo pensa la Gnosi, cioé un uomo specialissimo che è riuscito ad arrivare alla “vera conoscenza”, cioé al fatto che l’uomo è Dio.
Il “sang réal”, di cui parla il romanzo, non è altro che la “vera conoscenza” che deve trasmettersi in coloro che credono in questo vero Gesù, così come il sangue si trasmette di generazione in generazione.

CONCLUSIONE

Che dire? Che ancora una volta viene tradita quella sofferenza grandissima e specialissima che il Signore Gesù ha offerto per tutti noi. Viene tradita perchè se ne stravolge il significato, ma soprattutto perché se ne respinge il senso meraviglioso.
Qual é questo senso meraviglioso? E’ un Dio che si è fatto uomo per accompagnare l’uomo nell’avventura del suo esistere, redimerlo dal più grande problema (che è il peccato!) e condurlo alla Salvezza. E’ un Dio che si è fatto vittima per indicare all’uomo la strada dell’amore...è un Dio che ha teso e tende le sue braccia per rialzarci e sostenerci.
Il tradimento è ancora quello di sempre: rifiutare quella Compagnia, quel Sangue, quella Sofferenza, quelle Braccia...per illudersi di fare di se stesso il proprio Salvatore!



L’opuscolo

Le bugie del Codice da Vinci di Corrado Gnerre

si può richiedere agli

Studi apologetici Joseph obbedientissimus
via G.Gentile, 6
82100 BENEVENTO

e-mail: studiapologetici_jo@virgilio.it

tel: 349.5498571






http://apologetica.altervista.org/contro_codice_da_vinci.htm

ANALISI ALL'UTIMA CENA DI LEONARDO DA VINCI

ANALISI ALL'UTIMA CENA DI LEONARDO DA VINCI
Da Vinci travisato
Le interpretazioni revisioniste di Brown riguardo Leonardo da Vinci sono distorte quanto il resto del suo libro. Sostiene di essersi per la prima volta imbattuto in queste visioni "mentre studiavo storia dell'arte a Siviglia", ma queste corrispondono punto per punto al materiale nella Rivelazione dei Templari . Uno scrittore che vede in un dito puntato un gesto di tagliare la gola, che afferma che la Vergine delle Rocce è stata dipinta per delle suore e non per una confraternita laica maschile, che sostiene che Da Vinci ha ricevuto "centinaia di ricche commissioni da parte della Chiesa" (in realtà solo una… e non fu mai eseguita) è semplicemente inaffidabile.
L'analisi di Brown dell'opera di Leonardo Da Vinci è altrettanto ridicola. Presenta la Monna Lisa come un autoritratto androgino quando è ampiamente noto ritragga una donna reale, Madonna Lisa, moglie di Francesco di Bartolomeo del Giocondo. Il nome non è certamente — come sostiene Brown — un derisorio anagramma delle due divinità egizie della fertilità Amon e L'Isa (in italiano per Isis). Chissà come mai si è lasciato sfuggire la teoria, propugnata dagli autori della Rivelazione dei Templari , che la Sindone di Torino sia un autoritratto fotografato di Leonardo Da Vinci!
Molte delle argomentazioni di Brown sono incentrate intorno all' Ultima Cena di da Vinci, un dipinto che l'autore considera un messaggio in codice che rivela la verità su Gesù e il Graal. Brown sottolinea la mancanza del calice centrale sulla tavola come prova che il Graal non è un recipiente materiale. Ma il dipinto di Leonardo da Vinci mette in scena specificamente il momento in cui Gesù avverte: "Uno di voi mi tradirà" (Giovanni 13:21). Non c'è alcuna narrazione nel Vangelo di S. Giovanni. In esso l'Eucaristia non viene mostrata e la persona seduta accanto a Gesù non è Maria Maddalena (come sostiene Brown) ma S. Giovanni, ritratto come al solito come un giovane effeminato da Leonardo da Vinci, paragonabile al suo S. Giovanni Battista. Gesù si trova esattamente al centro del dipinto, con due gruppi piramidali di tre apostoli su ciascun lato. Sebbene Leonardo da Vinci fosse un omosessuale spiritualmente problematico, è insostenibile l'affermazione di Brown secondo cui egli codificò i suoi dipinti con messaggi anti-cristiani.



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Ma Leonardo non ha lasciato tracce della sua conoscenza del segreto del Priorato di Sion ne L’ultima cena, dove il personaggio raffigurato alla destra di Gesù Cristo sembra proprio una donna?

L’idea è stata definita «assurda» da una delle maggiori specialiste contemporanee di Leonardo, la professoressa Judith Veronica Field, docente alla University of London e presidentessa della Leonardo Da Vinci Society (cfr. Gary Stern, «Expert Dismiss Theories in Popular Book», The Journal News, 2 novembre 2003). Poiché tuttavia nei quadri ognuno vede quello che vuole vedere, più o meno suggestionato dalle letture che ha fatto, è importante segnalare che se il personaggio raffigurato da Leonardo alla destra di Gesù Cristo sia una donna o un uomo non è poi così importante per tutta la questione che ci occupa. Né è necessario tornare sulla vexata quaestio se Leonardo fosse eterosessuale, omosessuale o bisessuale, su cui ormai esiste una vasta letteratura, e se il suo gusto per forme maschili talora effeminate non costituisca a suo modo un elemento di cui tenere conto in questa discussione. Chi si affanna a discutere di questo problema si lascia sfuggire l’essenziale. Ammettendo - per assurdo - che Leonardo pensasse che la persona seduta alla destra di Gesù Cristo nell’Ultima Cena fosse una donna, ci si deve ancora chiedere in che modo questo dimostri che: (a) egli credeva che quella donna fosse la Maddalena; (b) il fatto che Leonardo lo credesse prova che sia vero; (c) la Maddalena ha partecipato all’Ultima Cena perché era la moglie di Gesù Cristo; (d) i due hanno avuto figli; (e) i quali avrebbero dovuto governare la Chiesa; (e) e per preservare questa verità è nato un ordine occulto, il Priorato di Sion; (f) del quale faceva parte Leonardo. Come si vede, la strada da percorrere è molto, molto lunga. Di tutti questi passaggi non solo non ci sono prove ma si sa con certezza chi, quando, dove e come ha inventato la leggenda del Priorato di Sion.



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di Francesco Agnoli

Se a destra di Cristo, dove solitamente è rappresentato l'apostolo prediletto, vi è la Maddalena, dove è finito Giovanni? Tanto più che la presenza della Maddalena sarebbe assolutamente assurda, in quanto rovinerebbe completamente il gioco simbolico dell'opera. Tutto il Cenacolo, infatti, è costruito sulla simbologia del tre (numero divino), del quattro (numero della terra e dell'uomo) e del dodici (quattro per tre, numero della totalità), i numeri da cui è caratterizzata anche la Gerusalemme celeste dell'Apocalisse. Nel Cenacolo vi sono infatti i dodici apostoli, raggruppati in quattro gruppi da tre; sullo sfondo, dietro Cristo, vi sono tre aperture, mentre sui lati quattro. Il soffitto, infine, è a cassettoni, con trentasei riquadri (dodici per tre). Di tutto questo Brown non dice nulla: eppure non è l'esperto conoscitore delle simbologie più nascoste?

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Codice da Vinci, protagonista è la menzogna

Codice da Vinci, protagonista è la menzogna



di Massimo Introvigne

Più lo butti giù, più si tira su. Il film Il Codice da Vinci è stroncato dai critici, ma cinquanta milioni di copie del romanzo assicurano comunque il successo di pubblico. Il film non è ideologico perché è brutto: è brutto perché è ideologico. Accentua in modo caricaturale le atmosfere buie e sinistre che nel romanzo hanno almeno come contrappunto gli occasionali modi ironici del protagonista Robert Langdon.

Non si tratta di imperizia degli attori o del regista, ma della scelta consapevole di creare – calcando ulteriormente la mano rispetto al romanzo – un'atmosfera dove lo spettatore è invitato a percepire immediatamente la Chiesa in generale e l'Opus Dei in particolare come istituzioni oscure e sinistre, che prosperano nel buio e tramano nell'ombra. Il film dà anche fastidio perché è prolisso e verboso. I personaggi, letteralmente, non esistono: sono semplici portavoce di una tesi. L'evoluzione di Sophie da scettica a credente e il fiorire del suo amore per Robert Langdon nel libro ci sono, nel film no. Che l'Opus Dei, pur colpevole di ogni male, sia però contraria all'omicidio (è il Maestro anticristiano, non il vescovo dell'Opus Dei, a manipolare l'inconsapevole monaco assassino Silas) è una sfumatura del libro che nel film è accennata così rapidamente da sfuggire alla maggioranza degli spettatori.

Lo slogan con cui la casa cinematografica risponde alle critiche - «è solo fiction» - è del tutto fuorviante. Come cattolico, se pure davvero fosse «solo fiction», protesterei ugualmente invitando a scherzare coi fanti e lasciare stare i santi.

Se mi proponessero un film dove la mia famiglia fosse dipinta come una cosca mafiosa, non mi accontenterei della scusa secondo cui è «solo fiction». E a un cristiano la sua famiglia spirituale, la Chiesa, non sta meno a cuore della famiglia carnale.

Come sociologo e studioso di religioni, mi indignerei anche se non fossi cattolico, perché Dan Brown insiste che la fiction è solo un pretesto per svelare segreti e documenti che un secolare complotto ha nascosto. Un complotto cui partecipano necessariamente non solo le Chiese ma anche gli studiosi accademici di storia del cristianesimo, una materia insegnata in gran parte da laici o marxisti fin dai tempi di Feuerbach e di Renan. A chi afferma che sostenere che «è tutto vero» è un semplice espediente di Dan Brown perché più gente vada al cinema, rispondo che ci sono purtroppo numerose indagini sociologiche secondo cui molti prendono le bufale del Codice per verità storiche.

L'idea del complotto è ridicola. I documenti di cui parla Dan Brown, i cosiddetti «Dossiers Secrets», sono falsi confezionati da tre avventurieri francesi nel 1967. Negli anni 1980 gli stessi tre avventurieri hanno descritto i «Dossiers secrets» con espressioni dove l'aggettivo era brillante, spiritoso o geniale ma il sostantivo era mistificazione o burla. Dan Brown è rimasto l'ultimo al mondo a considerare veri documenti riconosciuti falsi da decenni dalle persone stesse che li hanno confezionati.

Il film allora è brutto come tutti i film ideologici nati al servizio di una tesi preconcetta malamente travestita da fiction. Non essendo musulmani fondamentalisti, i cattolici seri non impediranno a nessuno di andare al cinema né tireranno sassi o bombe. Ma rifletteranno su come è triste e squallido il tiro al cristiano della cultura dominante, e di quale maleolente ciarpame essa si serva per vendere di nuovo Cristo: non per trenta denari, ma per i trenta milioni di dollari che ha guadagnato Dan Brown.

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LE RADICI DEL CODICE DA VINCI

LE RADICI DEL CODICE DA VINCI
Morton Smith e la truffa del Vangelo Segreto di Marco. Un libro scuote il mondo accademico americano

di Massimo Introvigne

Capita di rado che un libro esploda come una bomba e produca sconquassi nel mondo accademico americano, che è di solito riservato, tranquillo e abituato a muoversi con cautela. Ma è quanto sta succedendo con il volume di Stephen C. Carlson The Gospel Hoax. Morton Smith’s Invention of Secret Mark (“La truffa del Vangelo. Morton Smith e l’invenzione del Vangelo Segreto di Marco), appena pubblicato dalla Baylor University Press di Waco, nel Texas. Stephen C. Carlson è un avvocato specializzato in contraffazioni e documenti falsi, non uno studioso di scienze religiose, ma è l’editore che dà prestigio al volume. La Baylor University, una delle più grandi università degli Stati Uniti, da un originario legame con la Chiesa Battista è passata a un ambizioso piano di rinnovamento che fa sì che oggi la maggioranza dei docenti e degli studenti non siano battisti, ha attirato celebrità internazionali (delle più diverse opinioni religiose e politiche) in diversi settori, e pubblica quell’Interdisciplinary Journal of Research on Religion che molti considerano la più autorevole rivista accademica online nel settore degli studi sulle religioni.

C’è un gruppo di studiosi che ha contestato il Codice da Vinci da una prospettiva opposta a quella di molti cattolici e protestanti. Sono i seguaci di Morton Smith (1911-1991), il famoso e controverso storico della Chiesa, docente alla Columbia University di New York, secondo cui Gesù Cristo era il capo di una conventicola esoterica in cui si entrava con un rituale di iniziazione segreto che comprendeva elementi chiaramente omosessuali. Evidentemente il Gesù eterosessuale, sposato alla Maddalena e con figli di Dan Brown, non poteva piacere agli smithiani. Morton Smith si era conquistato fama e onori accademici annunciando nel 1958 di avere scoperto nella biblioteca del monastero di Mar Saba, in Palestina, inserita in un libro del 1646, la copia scritta a mano da un monaco circa un secolo dopo di un frammento di una lettera asseritamente scritta da San Clemente di Alessandria (?-215) a un certo Teodoro. Nella lettera – oltre a parlare male degli gnostici carpocraziani – si fa stato dell’esistenza di una versione segreta del Vangelo di Marco, e se ne cita in particolare un brano parallelo al noto episodio della resurrezione di Lazzaro. “Il giovane che Gesù amava”, un personaggio che assomiglia a Lazzaro, in questo Vangelo Segreto di Marco non è morto (tanto che “un grande grido si ode dalla sua tomba”) ma solo malato. Gesù lo riaccompagna a casa, e “dopo sei giorni”, come il Maestro gli aveva chiesto, Lazzaro gli si presenta “con un panno di lino sul corpo nudo”. Gesù “rimase con lui quella notte” e “gli insegnò i misteri del Regno di Dio”. Secondo Morton Smith si ha qui la prova di cerimonie iniziatiche in cui i discepoli sperimentano una “esperienza allucinatoria” e ottengono una “libertà dalla Legge (ebraica)” che li porta a una strettissima unione spirituale con Gesù, “completata da un’unione fisica”. Detto in termini meno accademici, Gesù è il capo di una setta esoterica come tante apparse in seguito nella storia e che esistono ancora oggi, che pratica rituali di magia sessuale, nella specie omosessuali.

Per alcuni anni un buon numero di studiosi ha creduto all’esistenza del Vangelo Segreto di Marco sulla base della testimonianza di Morton Smith, delle fotografie da lui scattate della lettera del monaco settecentesco, e delle autentiche di una serie di specialisti greci cui Smith mostrò a suo tempo le fotografie e che certificarono che si trattava in effetti di un testo scritto nel Settecento e su carta dell’epoca. Naturalmente, che il monaco del Settecento avesse copiato fedelmente un testo perduto di san Clemente non si poteva provare direttamente, ma Morton Smith e i suoi seguaci assicuravano che lo stile era così tipicamente di Clemente da rendere la tesi dell’autenticità praticamente certa. E Clemente era abbastanza vicino ai tempi apostolici per dovere sapere di che cosa stava parlando: se affermava che esisteva un Vangelo Segreto di Marco, questo doveva esistere. Dal momento che molte ipotesi di Morton Smith su insegnamenti esoterici di Gesù Cristo, diversi da quelli essoterici a tutti noti, erano piuttosto spericolate, molti storici e teologi si rifiutavano di seguirlo fino in fondo. Ma fino a qualche anno fa i più si limitavano a sostenere che il Vangelo Segreto di Marco citato da Clemente era in realtà un testo gnostico posteriore al Vangelo di Marco che tutti conosciamo, imitato da questo e da collocare nella categoria dei Vangeli apocrifi, dove storie più o meno bizzarre su Gesù sono – come sa chi ha appunto seguito le controversie sul Codice da Vinci – più o meno comuni.

C’era anche, per la verità, chi sosteneva che la lettera di Clemente era falsa e che il fatto che il manoscritto fotografato da Morton Smith fosse andato perduto nel monastero di Mar Saba e non si trovasse più per sottoporlo a ulteriori esami era un po’ troppo comodo. Ma queste voci erano messe a tacere: si rischiava di passare da bigotti, che volevano soffocare la voce scomoda di un professore progressista gettando dubbi indegni sulla integrità di un illustre docente. Il libro di Carlson presenta ora il caso sotto una luce completamente diversa. Afferma che le fotografie sono più che sufficienti. Applicando tecniche di investigazione forense non note negli anni 1950 Carlson dimostra persuasivamente – tanto da avere convinto tutti i recensori specializzati in criminologia – che è possibile provare non solo che il testo è stato prodotto nel XX secolo, non nel XVIII, ma anche che l’autore dello scritto è lo stesso Morton Smith. Le prove calligrafiche, estremamente tecniche, sono di per sé sufficienti. Ma – come molti falsari – Smith non ha resistito alla tentazione di lasciare una firma e ha inserito un’allusione a un metodo di produzione del sale assolutamente ignoto nel XVIII secolo – per non parlare dell’epoca di san Clemente – noto come “metodo Morton”, e altri riferimenti alla parola “Smith”. Inoltre la famosa prova costituita dall’“inconfondibile” stile di Clemente tradisce ancora il falsario, perché esagera. Ci sono stilemi e modi di esprimersi unici utilizzati da Clemente, ma nelle sue opere ricorrono una volta ogni due o tre frasi. Qui in un solo breve testo ce ne sono decine.

Dopo lo scandalo letterario del Codice da Vinci, interamente costruito su documenti noti da vent’anni come falsi (come credo di avere dimostrato nel mio Gli Illuminati e il Priorato di Sion, Piemme, Casale Monferrato 2005), siamo di fronte a uno scandalo accademico che interesserà meno il grande pubblico, ma le cui potenzialità sono assai più esplosive. Come hanno scritto recensori del libro di Carlson che insegnano storia del cristianesimo antico, come Bart D. Ehrman, si crede al Vangelo Segreto di Marco perché ci si vuole credere: non solo perché è “politicamente corretto” ritrovare l’omosessualità fra i primi cristiani, ma perché – quand’anche non fosse valido come prova di iniziazioni omosessuali – dovrebbe provare un punto centrale (ma falso) dell’esegesi biblica più ostinatamente “progressista”: l’instabilità della tradizione apostolica e la coesistenza di tradizioni molto differenti ancora nel secondo secolo se non addirittura nel terzo. Da questo punto di vista, un rispettato professore della Columbia University – un tempio del progressismo politico e religioso – come Morton Smith appare, a posteriori, come la semplice versione accademica di un Dan Brown qualunque.

M. Introvigne

Quanto appena detto da Introvigne ci aiuta a renderci conto di chi era questo Morton Smith: un bestemmiatore menzognero! Ho visto proprio ieri il suo libro blasfemo e veramente diabolico: Gesù Mago; questo libro è semplicemente un accumulo di menzogne e bestemmie contro Gesù benedetto. Ma chi si mette contro la Verità che è Cristo , prima o poi mostra mostra di essere un menzognero, è il caso di questo professore, falso maestro , ora deceduto; che sia arrivato a falsificare documenti e affermare tali menzogne è altamente istruttivo per noi ...chissà ora dove sta? E se sta all'inferno quanto terribilmente soffre per avere scandalizzato tanti e probabilmente in modo cosciente , con le sue bestemmie e menzogne.

Cristo regni

D. Tullio

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Gesù, la Maddalena e quelle nozze così «ovvie»

Gesù, la Maddalena e quelle nozze così «ovvie»

di Andrea Tornielli


Ci siamo finalmente lasciati alle spalle la trama del romanzo e i retroscena relativi alla produzione del kolossal cinematografico che ha avuto come iniziale set nientemeno che il Louvre. Possiamo ora entrare nel merito delle affermazioni di Dan Brown (e dei suoi predecessori), incominciando con quelle più «sostanziose», vale a dire quelle che sembrano all’apparenza minare le fondamenta stesse della religione cristiana e i suoi insegnamenti.

Secondo l’autore del Codice da Vinci, Gesù era sposato con la Maddalena, aveva avuto dei figli da lei prima di morire in croce. Il Nazareno non era «figlio di Dio», ma soltanto un grande profeta, un «maestro», trascinatore di folle, ma per nulla divino. Il quale avrebbe deciso di nominare la moglie quale fondamento della sua chiesa e guida spirituale della prima comunità cristiana. Non aveva però fatto i conti con gli agguerriti discepoli maschi, che non sopportando di vedersi sopravanzare e comandare da una donna, l’avevano esiliata, inventando di sana pianta un altro cristianesimo, più maschilista. Avevano cancellato ogni traccia del matrimonio tra Gesù e la Maddalena. L’imperatore Costantino aveva contribuito sensibilmente all’operazione, facendo scomparire i vangeli che provavano la verità e lasciando sopravvivere soltanto gli «innocui» testi di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, con la complicità della Chiesa, pronta a esprimersi con un voto, e un risultato a maggioranza risicata, nientemeno che sulla divinità del figlio di Dio.

Incominciamo innanzitutto con il parlare della formazione del testo evangelico, della differenza tra vangeli canonici e vangeli apocrifi, del momento in cui si è formato il «canone» del Nuovo Testamento. Con il termine canone, che in greco significa «misura», «regola», s’intendono i libri sacri ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa. I quattro vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni divennero «canonici» già nel II secolo dell’era cristiana, dunque parecchio tempo prima del Concilio di Nicea, tenutosi nel 325, che secondo Brown avrebbe ufficializzato la scelta. Il Canone Muratoriano, documento del tardo II secolo, contiene un elenco di libri canonici che include i quattro vangeli ed esclude altri scritti.

La parola «apocrifi», usata oggi per indicare i vangeli non canonici e dunque non riconosciuti dalla Chiesa, è sempre greca e significa «nascosti»: nel II secolo circolavano infatti scritti diffusi nei circoli gnostici cristiani che venivano denominati in quel modo, «apókryphoi». Lo gnosticismo («gnosis» significa «conoscenza») è un movimento filosofico-religioso molto articolato che ha avuto la sua massima diffusione tra il II e il III secolo. Gli gnostici credevano in un dualismo radicale, cioè in una differenza abissale tra Dio e la realtà materiale: lo spirito sarebbe, secondo questa visione, sostanzialmente estraneo all’universo e il rapporto con il mondo materiale non potrebbe contribuire in alcun modo all’elevazione spirituale dell’uomo.

Negli ultimi decenni, i vangeli apocrifi hanno conosciuto un grande successo: vengono studiati, letti, recensiti. Molti di questi sono testi che ripropongono l’essenziale dei fatti narrati nei canonici, infarcendoli però molto spesso di aneddoti ed episodi che mirano a stupire e risultano lontani anni luce dallo stile sobrio e cronachistico dei quattro evangelisti «ufficiali». Facciamo finta, per un momento, di non sapere nulla del canone, né degli autori dei canonici e degli apocrifi.

Facciamo finta, per un istante, di non conoscere la datazione più probabile dei primi e dei secondi e dunque di non porci il problema della loro maggiore o minore aderenza ai fatti narrati. Prendiamo in considerazione soltanto ed esclusivamente i testi così come sono, leggendoli senza alcun pregiudizio teologico, filosofico, esegetico. Fingiamo cioè di trovarci di fronte semplicemente alle pagine di due diversi libri: da una parte il «libro» formato dai quattro canonici; dall’altra il «libro» formato assemblando gli apocrifi. Esiste o non esiste una fondamentale differenza? Davvero sono simili, di uguale valore? Davvero si può affermare che gli apocrifi dicono la verità mentre i canonici la mistificano o la sublimano? Chiunque faccia la fatica di affrontare il paragone tra i due tipi di testo, deve riconoscere che esiste una differenza. Anzi, una bella differenza. Prendiamo soltanto un esempio, riferito ai vangeli dell’infanzia, che ci raccontano di Gesù bambino, della strage degli innocenti e della fuga in Egitto. Leggiamo nel vangelo di Matteo: «Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”. Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:“Dall’Egitto ho chiamato il mio figlio”. Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s’infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi».

L’evangelista non parla del viaggio, né della permanenza della sacra famiglia nel Paese dei faraoni. Ecco come, invece, l’autore del vangelo apocrifo detto dello «Pseudo Matteo» parla della fuga in Egitto:

«Giunti a una grotta, decisero di riposare sotto di essa, e Maria scese dalla giumenta e si sedette, tenendo in grembo Gesù. Ora, c’erano tre ragazzi che facevano il viaggio con Giuseppe e una ragazza con Maria. Ed ecco che all’improvviso uscirono dalla grotta molti draghi, vedendo i quali i ragazzi si misero a gridare per il grande spavento. Allora Gesù, sceso dal grembo di sua madre, si fermò ritto in piedi di fronte ai draghi e quelli lo adorarono, e dopo averlo adorato si allontanarono da loro. Così si adempì ciò che era stato preannunciato dal profeta Davide, che aveva detto: “Lodate il Signore della terra, o draghi, e tutti voi, o abissi”. E il piccolo Gesù, camminando davanti a loro, ordinò che non facessero del male a nessuno…Similmente lo adoravano i leoni e i leopardi e si accompagnavano con essi nel deserto: dovunque andavano Maria e Giuseppe, li precedevano indicando la strada e chinando il capo adoravano Gesù…

Nel terzo giorno dopo la loro partenza accadde che Maria nel deserto si stancò per il troppo ardore del sole, e vedendo un albero di palma disse a Giuseppe: “Vorrei riposare un poco alla sua ombra”. E Giuseppe si affrettò a condurla sotto la palma e la fece scendere dalla giumenta. Appena si fu seduta, guardando la chioma della palma, vide che era carica di frutti e disse a Giuseppe: “Desidererei, se fosse possibile, raccogliere di quei frutti di questa palma”…

Allora il piccolo Gesù, che con il volto sorridente riposava nel grembo di sua madre, disse alla palma: “Piegati, albero, e ristora mia madre con i tuoi frutti!”. E subito, a questa voce, la palma chinò la sua cima fino ai piedi di Maria, e da essa raccolsero frutti con cui tutti si saziarono…».

Draghi che vengono domati, belve feroci che indicano la strada, palme che si piegano... Un mondo fantasioso, mirabolante. Si tratta di testi che sono stati scritti con l’intento di rispondere alla curiosità della gente, che inventano laddove mancano testimonianze, che immaginano. Negli apocrifi il piccolo Gesù ci viene presentato come un «superman», che fulmina i bambini che lo disturbano mentre gioca e trasforma in capretti i compagni cattivi. Che contrasto con l’asciuttezza dei canonici, autentici capolavori letterari! In questi ultimi tutto è scarno. Non si cede mai alle fantasticherie. Non si tratta, dunque, di contenuti «scomodi» che vengono censurati, rispetto a quelli più innocui e corrispondenti alla dottrina vincente, al credo di chi nella Chiesa ha assunto il potere. Sono i testi stessi a mostrare la loro intrinseca differenza. Questo, lo ripetiamo, al di là di qualsiasi altra considerazione sul loro valore teologico.

C’è poi un’altra differenza, non di poco conto. I vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni sono stati scritti nel I secolo dell’era cristiana. È comunemente accettato dagli studiosi che la redazione di questi testi sia avvenuta tra il 70 e il 90 dopo Cristo. Per collocare temporalmente i tre vangeli «sinottici» (in questo modo vengono chiamati i vangeli di Matteo, Marco e Luca, che si possono leggere affiancati per abbracciare con il medesimo sguardo d’insieme, «synopsis», gli avvenimenti narrati), iniziamo col dire che il I vangelo sarebbe quello di Matteo, ma non nella versione greca da noi conosciuta, bensì in una più antica versione in aramaico, la lingua di Gesù: è stato scritto a Gerusalemme ed è un testo destinato ad annunciare la buona novella agli ebrei. Il vangelo di Marco, scritto in greco, è stato invece composto a Roma, mentre quello di Luca, anch’esso scritto direttamente in greco, è stato composto ad Antiochia.

Gerusalemme, Roma, Antiochia: abbiamo citato tre centri importantissimi dell’antichità. In ognuna di queste città ha predicato l’apostolo Pietro, dunque i vangeli canonici traggono la loro origine dalla diretta predicazione apostolica, dalle parole di coloro che avevano condiviso la vita con Gesù, vale a dire i testimoni oculari, gli unici che avevano visto tutto ciò che era accaduto, che avevano assistito ai fatti e avevano ascoltato le parole del messia. Ci sono anche studiosi che sulla base di nuove scoperte tendono ad avvicinare sempre di più l’epoca della stesura dei vangeli ai fatti che vi sono narrati e alla stessa predicazione di Cristo. Sappiamo che Gesù, sulla cui esistenza storica ormai quasi nessuno ha dubbi (a esclusione dello studioso inglese George A. Wells o di qualche personaggio del folklore nostrano), è morto tra l’anno 30 e l’anno 36 dell’era cristiana. Questa datazione è ottenuta incrociando le informazioni in nostro possesso riguardanti, per esempio, il periodo del sommo sacerdozio di Caifa e della permanenza di Ponzio Pilato in Giudea. Già nell’anno 56 viene situato il vangelo di Matteo nella sua versione in aramaico, quello di Marco e quello di Luca si situano verso l’anno 60 e comunque prima del 70, quando avviene la prima distruzione di Gerusalemme da parte dei romani.

Il vangelo di Giovanni, invece, è più tardo, ed è stato scritto verso l’80 dopo Cristo ad Efeso. Un frammento di papiro, denominato 7Q5, scoperto tra i rotoli di Qumran, nel Mar Morto, è stato identificato dal papirologo José O’Callaghan come un passo dell’evangelista Marco. Se questa attribuzione fosse vera, significherebbe che quel vangelo, scritto da un seguace di Pietro, è datato prima dell’anno 50 e ciò corrisponderebbe a un’antica tradizione, citata da Clemente d’Alessandria, secondo la quale la prima predicazione di Pietro a Roma sarebbe avvenuta già nell’anno 42.

Come si vede, si tratterebbe di una stesura del testo avvenuta in tempi molto ravvicinati rispetto ai fatti che espone. In ogni caso, anche lasciando da parte queste scoperte, sulle quali il dibattito scientifico è ancora aperto, e facendo notare che la storicità, la veridicità, l’attendibilità di un testo non sono per forza legate alla sua antichità, ma si deducono anche da una serie di elementi intrinseci, dobbiamo dire che i quattro evangelisti hanno raccolto dei testi scritti che erano già usati per la catechesi dalle prime comunità cristiane. C’erano cioè precedenti raccolte di «detti» di Gesù («loghia») e dunque, presupponendo l’esistenza di tradizioni scritte e orali andate perdute ma più antiche dei vangeli stessi, ci avviciniamo sempre di più agli eventi narrati potendo quasi attribuire a queste fonti – fatte le debite distinzioni – quasi il valore di cronache giornalistiche.

Ecco dunque un secondo, buon motivo per non mettere sullo stesso piano i quattro vangeli canonici e quelli apocrifi. «Per chi voglia avvicinarsi storicamente a Gesù», scrivono Gerd Theissen e Annette Merz nel libro-manuale Il Gesù storico (Queriniana, 2003), «le tradizioni sinottiche restano, già soltanto a motivo della loro consistenza quantitativa, le fonti decisive…».

Possiamo ora chiederci quali siano stati i rapporti di Gesù con le donne. Esse figurano come destinatarie del suo messaggio e quindi come «soggetti religiosamente responsabili» (Theissen-Merz, Il Gesù storico). La folla che si raccoglie nei villaggi all’arrivo del Nazareno, o che lo segue, è fatta di uomini e di donne. In questo caso, le fonti evangeliche sinottiche non confermano l’immagine di una donna che non deve uscire di casa, come invece pretendono altre fonti. Il messaggio di Cristo è volutamente diretto ai più poveri sul piano economico e alle donne socialmente più disprezzate, vale a dire le prostitute. A loro e ai pubblicani, Gesù promette (Matteo 21, 31 ss) l’accesso al regno dei cieli. Mentre secondo Luca (7, 36-50) Gesù consente a una prostituta di avvicinarsi a lui, di baciarlo e di cospargergli i piedi di olio profumato, interpretando questi gesti come espressione del suo amore e assicurando a lei il perdono di Dio. Inoltre, nel corso della sua vita pubblica documentata dagli evangelisti, Gesù guarisce numerose donne. E troviamo dei personaggi femminili, in un numero che doveva variare di volta in volta, anche tra i seguaci itineranti del Nazareno, così come troviamo donne predicatrici della Buona Novella cristiana dopo la morte e la resurrezione di Cristo. «I seguaci di Gesù che vivevano come carismatici itineranti, e quanti li accoglievano, formavano insieme la nuova famiglia di madri, sorelle, fratelli e figli – una familia Dei che condivideva case e campi, ma che viveva senza padre umano… Le gerarchie patriarcali non erano destinate a valere in questa società, dove invece si richiedeva a coloro che erano tradizionalmente privilegiati una rinuncia radicale alla propria condizione sociale…» (TheissenMerz, Il Gesù storico, p. 280). Gesù, nella sua predicazione e nelle sue parabole, sceglie molte volte personaggi femminili ed è evidente la sua critica implicita all’identificazione, nel linguaggio patriarcale, tra «uomo» e «maschio», nonché alla tendenza a simboleggiare Dio utilizzando categorie soltanto maschili.

Veniamo ora alla figura di Maria Maddalena. Si tratta di una delle sette donne che portano questo nome nel Nuovo Testamento. Ecco quali sono (seguiamo qui l’elenco proposto dal biblista protestante Darrell L. Bock, nel suo libro Il Codice da Vinci, verità e menzogne, ed. Armenia 2005): Maria, la madre di Gesù (Luca, 1, 30-31); Maria di Betania (Giovanni 11,1); Maria, la madre di Giacomo (Matteo 27,56); Maria la moglie di Cleofa (Giovanni 19,25); Maria, la madre di Giovanni e Marco (Atti degli Apostoli 12,12); una non meglio identificata Maria (Romani 16,6); Maria Maddalena, caratterizzata dal riferimento al paese natale, Magdala (Luca 8,2). Cominciamo col dire che il nome «Maria» («Miryam») era all’epoca molto diffuso. Notiamo inoltre come le varie Maria citate negli scritti neotestamentarie vengano riconosciute con ulteriori specificazioni legate alla loro funzione di madri o di mogli. Sono riferimenti riconducibili comunque a figure maschili, tipici di una società patriarcale quale quella della società ebraica del I secolo. Ebbene, la Maddalena, la donna che apparteneva al gruppo di seguaci di Cristo, in questi testi viene caratterizzata non per la sua relazione con qualcuno («madre di…», «moglie di…») ma per la sua provenienza geografica, vale a dire Magdala, che dovrebbe corrispondere all’attuale Migdal, nei pressi del mare di Galilea, in Israele. Perché dunque gli evangelisti non ci dicono che essa era «moglie di Gesù»? Dan Brown, lo abbiamo visto, ha già la risposta pronta: non possiamo sperare di trovare la «verità» sulla storia d’amore tra Gesù e la Maddalena negli scritti canonici approvati dalla Chiesa, perché quest’ultima, complice l’imperatore Costantino, ha scelto e ufficializzato proprio gli scritti nei quali questo segreto non veniva svelato, al fine di poter perpetuare il suo potere e presentarci un Gesù celibe e una prima comunità tutta maschile. Per l’autore del Codice da Vinci, conta poco dunque il fatto che i quattro vangeli canonici siano considerati quelli più temporalmente vicini ai fatti narrati, mentre gli altri, gli apocrifi, sono molto più tardi e marginali.

Ma continuiamo il nostro viaggio. Nei vangeli canonici Maria non compare mai da sola in compagnia di Gesù, se non una volta. È tra i seguaci del Nazareno, lo abbiamo detto, insieme ad altre donne. È ai piedi della croce, insieme ad altre donne (le quali vengono sempre citate definendo la loro relazione di madri o di mogli, mentre per la Maddalena ci si riferisce sempre e solo al suo essere di Magdala); la ritroviamo tra coloro che assistono alla deposizione, anche in questo caso mescolata ad altre donne e mai in posizione isolata o preminente. La vediamo infine tra le donne che la mattina di Pasqua, all’alba, si recano al sepolcro per ungere il corpo e compiere quelle lamentazioni che non avevano potuto fare il venerdì, a causa dell’inizio del riposo sabbatico coincidente con il tramonto. In Giovanni (20, 11-18), ritroviamo infine e finalmente l’unico episodio che racconta della Maddalena da sola con Gesù. Tutto accade quella stessa mattina del giorno di Pasqua.

«Maria invece stava all’esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. Ed essi le dissero: “Donna perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto”. Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. Le disse Gesù: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”. Essa, allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: “Rabbuni!”, che significa Maestro! Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre...”».

Come si può ben vedere, non stiamo propriamente descrivendo un incontro galante. L’abbraccio della Maddalena a Gesù, che quel «non mi trattenere» fa chiaramente intuire, non è legato a una particolare relazione amorosa tra la donna e il Nazareno, quanto alla sua gioia e alla sorpresa di vedere davanti a lei, vivo e vegeto, colui che sapeva morto in croce e deposto nel sepolcro. «Maria era una discepola e seguace itinerante di Gesù fra un gruppo di altre donne», scrive Darrell L. Bock. «Non è mai stata legata a lui in alcun altro senso. Benché altre donne fossero associate a figure maschili a causa di vincoli di parentela, Maria non lo era. Fu solo testimone della crocifissione, della sepoltura e della resurrezione. Nient’altro».

Noi sappiamo, però, che queste spiegazioni non bastano al «complottista» Dan Brown. Perché, nel Codice da Vinci, per «provare» il matrimonio tra Cristo e la Maddalena, vengono citate altre fonti. Fonti nascoste, sfuggite alla furia distruttrice della Chiesa primitiva. Esaminiamole, dunque, queste fonti, dalle quali si evincerebbe senza tema di smentita la relazione tra i due. Nel romanzo Teabing e Langdon spiegano a Sophie Neveu che il matrimonio fra Gesù e la Maddalena è «storicamente documentato» e che la prova sta nei vangeli gnostici, per esempio, nel «Vangelo di Filippo». Si tratta di un testo rinvenuto nel 1945 presso Nag Hammadi, in Egitto, insieme con una intera collezione di scritti gnostici, in lingua copta, e che risale alla seconda metà del III secolo. È dunque più vecchio di almeno centocinquanta-duecento anni rispetto al vangelo canonico considerato più tardo, vale a dire quello di Giovanni. Su quali basi l’autore di questo testo l’avrà redatto? Perché mai dovremmo preferirlo ai testi canonici? Un mistero che Dan Brown non svela, limitandosi a passare oltre.

Le affermazioni dei personaggi del Codice da Vinci lasciano inoltre pensare che esista un testo bello, pulito e chiaro di questo «vangelo di Filippo». Peccato che, invece, le cose non stiano affatto così. Riportiamo i versetti 63,33-36, quelli centrali che descrivono il bacio tra Maria e il Nazareno:

«…la compagna del [Signore] è Maria Maddalena. [Il Signore amava lei] più di [tutti] i discepoli [e spesso] le dava un bacio sulla [bocca]». Che cosa significano tutte quelle parentesi quadre che spezzettano il frammento di testo? Significano che le parole tra parentesi sono state «ricostruite», perché il testo era lacunoso. Non c’era, era deteriorato, non si leggeva. Vale a dire che se ci fermassimo soltanto alle parole che sono arrivate intellegibili a noi, avremmo questo testo:

«…la compagna del… è Maria Maddalena. … più di … i discepoli … le dava un bacio sulla …». Molto chiaro, vero? È prassi comune per gli studiosi formulare ipotesi che permettano la ricostruzione di un testo antico lacunoso e non possiamo affatto escludere che le parole originali di questo vangelo gnostico di Filippo siano davvero quelle ricostruite. Ma non possiamo escludere che siano possibili altre soluzioni. Per esempio, quel «bacio» potrebbe essere stato dato sulla fronte o sulla guancia. Non è del tutto arbitrario trarre da un testo così tardo e lacunoso la «prova» (prova?) del matrimonio tra Cristo e la Maddalena? Tanto più che neanche in questo caso si parla di matrimonio? Perché mai, allora, Dan Brown propende con tale sicurezza verso il bacio sulla bocca, che sarebbe indicatore di una relazione amorosa? Questa interpretazione non è di Brown, ma di una studiosa, Karen King, docente all’università di Harvard, la quale, nel libro The Gospel of Mary of Magdala propende per il bacio sulla bocca per analogia con un altro passo del vangelo gnostico di Filippo (versetti 58, 34; 59,4) dove si parla esplicitamente di un bacio sulla bocca come segno di fratellanza tra i credenti. Il baciarsi ha il significato gnostico di accogliere nell’intimo gli insegnamenti spirituali impartiti: «…dalla bocca, [poiché] se il Logos viene da quel luogo, egli nutre dalla sua bocca e sarà perfetto. Il perfetto, infatti, concepisce e genera per mezzo di un bacio. È per questo che noi ci baciamo l’un l’altro. Noi siamo fecondi dalla grazia che è in ognuno di noi». Al lettore non sarà sfuggito che anche in questo caso, pur trovandoci di fronte a un inequivocabile bacio sulla bocca, questo non ha nulla a che vedere con una relazione amorosa tra chi se lo scambia: si tratta cioè di un segno di fratellanza, come quello dato sulla guancia. Anche se dunque correggessimo il testo lacunoso sulla base di questo passo successivo, e ipotizzassimo che il bacio di Gesù alla Maddalena sia stato dato sulla bocca, esso non avrebbe – lo si deduce chiaramente dal contesto – alcuna valenza sessuale.

Anche il vocabolo usato per indicare la Maddalena, «compagna», nel «vangelo di Filippo» è una traslitterazione in copto del termine greco «koinonos». «Questa parola», osserva Darrell L. Bock «può significare “moglie” o “sorella” in senso spirituale. Ma non è questo il termine usato in maniera specifica o comunemente per “moglie”, che in greco dovrebbe essere “gyne”». Nulla, insomma, indica un matrimonio o una relazione amorosa.

Dov’è, dunque, la «prova» di Dan Brown? Manca clamorosamente all’appello.

Esaminiamo ora un altro testo, questa volta tratto dall’apocrifo «vangelo di Maria Maddalena», dove si parla di una rivalità tra Pietro e la discepola. Ecco il passo (17, 10-18,21):

«Ma Andrea replicò e disse ai fratelli: “Dite che cosa pensate di quanto ella ha detto. Io, almeno, non credo che il Salvatore abbia detto ciò. Queste dottrine, infatti, sono sicuramente insegnamenti diversi”.

Riguardo a queste cose parlò anche Pietro. Egli interrogò in merito al Salvatore: “Ha egli forse parlato realmente in segreto e non apertamente a una donna, senza che noi lo sapessimo? Ci dobbiamo ricredere tutti e ascoltare lei? Forse egli l’ha anteposta a noi?”.

Maria allora pianse e disse a Pietro: “Pietro, fratello mio, che cosa credi dunque? Credi tu che io l’abbia inventato in cuor mio, o che io menta riguardo al Salvatore?”.

Levi replicò a Pietro dicendo: “Tu sei sempre irruente, Pietro! Ora io vedo che ti scagli contro la donna come [fanno] gli avversari. Se il Salvatore l’ha resa degna, chi sei tu che la respingi? Non v’è dubbio, il Salvatore la conosce bene. Per questo amava lei più di noi. Dobbiamo piuttosto vergognarci, rivestirci dell’uomo perfetto, formarci come egli ci ha ordinato, e annunciare il vangelo senza emanare un’ulteriore legge, all’infuori di quanto ci disse il Salvatore”».

Da questo brano emerge che la Maddalena aveva avuto da Cristo una rivelazione che gli altri non avevano ricevuto. Osserva Darrell L. Bock: «Maria era inquieta e ferita dalla sfida di Pietro, ma Levi (probabilmente identificabile con Matteo) giunge a difenderla: il Signore ha scelto lei per questo ruolo specifico; l’ha resa degna e inoltre la conosceva bene. L’implicazione è che Gesù la conosceva abbastanza bene da sapere se fosse degna di ricevere una rivelazione autonoma. Da quella conoscenza derivava lo straordinario amore di Gesù: nessun richiamo a legami familiari. Maria era semplicemente beneficiaria di una speciale rivelazione da parte di Gesù. Il testo non indica nient’altro, tranne che Gesù apparve solo a lei».

Anche prendendo per buono e veritiero questo testo che – non ci stanchiamo di ripeterlo – è molto più tardo rispetto ai vangeli canonici, ci possiamo chiedere in tutta franchezza dove sia la «prova» che Gesù fosse sposato con la Maddalena. Da che cosa lo deduce Dan Brown? Quali arcani misteri è riuscito a scoprire l’autore del Codice da Vinci dietro queste pagine, che a noi comuni mortali invece sfugge? La realtà è che nemmeno dagli apocrifi più strani, dai testi gnostici meno ortodossi, noi riusciamo a ricavare un puntello per la strampalata teoria del matrimonio di Gesù e del conseguente «sangreal», vale a dire della discendenza di Cristo e della Maddalena. Ci sono soltanto quei due passi, soltanto quei due testi piuttosto tardi, che certamente non bastano nemmeno a puntellare la tesi di Dan Brown.

Secondo il Codice da Vinci, la spietata Chiesa delle origini avrebbe cancellato ogni traccia di questa donna e del principio femminile, tradendo in questo modo il mandato di Cristo. Stanno davvero così le cose? Davvero la prima comunità si è sbarazzata del «principio femminile»? Non si direbbe proprio, dato che proprio a una donna, Maria, la madre di Gesù, viene tributato un culto antichissimo ed è lei, una ragazza ebrea, a essere considerata il «vertice» della creazione. Proprio il culto mariano, rintracciabile nelle antiche iscrizioni e nei graffiti della grotta di Nazaret, scoperti in tempi relativamente recenti, vanifica le elucubrazioni di Dan Brown. L’elemento femminile non è affatto censurato, dunque. E proprio la valorizzazione della figura della Madonna rende piuttosto improbabile che invece di un’altra donna – la quale sarebbe stata addirittura la compagna di Gesù – si siano potute cancellare completamente le tracce, trasformandola da guida prescelta della comunità in personaggio secondario, seppure lasciandole il «primato» dell’iniziale apparizione del risorto. Se davvero Maria di Magdala fosse stata la moglie di Gesù, sarebbe stata adeguatamente celebrata, così com’è avvenuto per la madre del Nazareno.

Dan Brown, nel suo romanzo, a un certo punto fa dire a Teabing: «Poiché il suo nome era proibito dalla Chiesa, Maria Maddalena divenne nota sotto vari pseudonimi: il Calice, il Santo Graal, la Rosa…». Peccato che Santa Maria Maddalena sia venerata come tale, e con il suo vero nome, proprio dalla Chiesa cattolica, che ne festeggia la memoria liturgica il giorno 22 giugno. Ci sono poi almeno quattordici sante canonizzate che portano questo nome in onore della donna alla quale Gesù apparve appena risorto.

È giunto il momento, ora, di affrontare un altro tema di capitale importanza, collegato al precedente. Lasciamo perdere, per un momento, gli apocrifi gnostici che parlano di Gesù e della Maddalena, dai quali, come abbiamo visto, non si evince affatto l’esistenza di un matrimonio o di una relazione tra Gesù e la Maddalena. E chiediamoci: il Nazareno era sposato? La questione non è affatto secondaria, perché, nel Codice da Vinci si legge, a tale proposito, che Gesù «doveva» essere sposato, perché la cultura religiosa dell’epoca non prevedeva la figura del rabbino celibe e il celibato non era una condizione vista favorevolmente.

Nel sito www.beliefnet.com è stato pubblicato un dibattito sui problemi sollevati dal romanzo e uno studioso, John Dominic Crossan, interpellato sul possibile matrimonio di Gesù, ha risposto in modo ironico: «Esiste un antico e rispettabile principio nell’ambito dell’esegesi biblica che stabilisce che se qualcosa assomiglia a un’anatra, cammina come un’anatra e starnazza come un’anatra allora deve trattarsi di un cammello travestito. Applichiamo il principio alla domanda. Non ci sono prove che Gesù fosse sposato (assomiglia a un’anatra); molteplici indicazioni lo smentiscono (cammina come un’anatra); e nessuno dei testi più antichi lascia intendere che avesse moglie e figli (starnazza come un’anatra)… dunque doveva essersi sposato di nascosto (cammello travestito)».

«Per un certo verso – commenta Darrell L. Bock, nel suo Il Codice da Vinci, verità e menzogne – la domanda mi colpisce per la sua incongruità, dal momento che quasi tutti sostengono che Gesù era talmente assorbito dal suo magistero che rimase celibe». L’ironia di Crossan è determinata dal fatto che per taluni studiosi, ai vangeli, alla storia della vita di Gesù, vanno applicati criteri interpretativi che nulla hanno a che fare con i metodi scientifici usati per esaminare e analizzare ogni altro personaggio storico. I dubbi che vengono insinuati su ogni versetto evangelico, il fatto che diversi esegeti di grande fama arrivino a considerare non storica più della metà dei vangeli canonici, lascia spesso sconcertate altre categorie di esperti, come per esempio gli storici e in particolare gli storici che si occupano dell’epoca romana.

Un indizio di questo è la necessità – postulata da molti biblisti – di dover supporre che sia trascorso un certo lasso di tempo (preferibilmente molto tempo) tra gli avvenimenti narrati nei vangeli e la stesura dei testi che li raccontano: diventa così protagonista del vangelo la prima comunità cristiana, che redigendo e intervenendo su quei testi, li avrebbe più o meno «manipolati» a prescindere dai fatti stessi, inserendovi materiali che nulla hanno a che vedere con la storia e che sono invece finalizzati alla catechesi.

Un esempio. Sulla base degli studi più recenti, sugli «echi» del racconto evangelico nella letteratura romana del I secolo, la professoressa Marta Sordi, dell’Università Cattolica di Milano, ha affermato: «L’annuncio pasquale, così come ci è raccontato dagli evangelisti, non è una tardiva costruzione della comunità cristiana, ma sembra circolasse già in forma compiuta nella Roma imperiale del I secolo. Ancora una volta, dunque, ci troviamo di fronte a indizi che tendono a mettere in discussione la datazione ritenuta più probabile per la stesura dei quattro Vangeli. Qui entriamo in un campo che non ha più a che fare con la ricerca storica, con le fonti, con la paleografia e la papirologia. Qui entra in gioco un dibattito interno al mondo cristiano: per molti biblisti ed esegeti è infatti indispensabile supporre un tempo adeguato durante il quale la comunità cristiana avrebbe dato vita e forma al racconto evangelico. Per me, invece, il Vangelo di Marco è stato redatto attorno al 42, come affermavano importanti scrittori cristiani del II secolo, quali Papia vescovo di Gerapoli e Clemente d’Alessandria. Dunque una decina di anni dopo i fatti che narra. E l’eco del racconto evangelico che ritroviamo nella letteratura latina ci dovrebbe far supporre che questi testi fossero già completi diverso tempo prima rispetto all’epoca in cui vengono solitamente datati. Come storico, non ho il problema di dover supporre un tempo adeguato per l’intervento della comunità cristiana».

Abbiamo citato questo particolare perché si inserisce bene nell’ironica osservazione di Crossan.

Eppure, ritornando al nostro problema, il possibile matrimonio di Gesù è un argomento che non ha appassionato particolarmente gli esegeti. Gli studiosi sono infatti piuttosto concordi nell’affermare che il Nazareno fosse celibe e si tratta di uno dei pochi argomenti sul quale quasi tutti si dicono d’accordo. Dunque l’esempio dell’anatra e del cammello travestito, in questo caso, non è propriamente azzeccato, a meno di non mettere sullo stesso piano le obiezioni di studiosi di fama con le leggende accreditate da qualche setta esoterica e ripescate da Dan Brown.

Innanzitutto, dobbiamo precisare che non esiste alcuna prova del fatto che Gesù fosse sposato: non ci sono testi extra-evangelici che lo sostengano e gli stessi apocrifi gnostici, scritti un paio di secoli dopo Gesù, come abbiamo visto non raccontano affatto di una «liaison» tra Cristo e la Maddalena, ma accennano in un caso a un bacio alquanto confuso e carico di significati simbolici (senza riferimenti amorosi), e in un altro di un dissidio tra i primi discepoli per una «rivelazione» che Gesù avrebbe fatto a lei e non a loro. Non ci sono fonti antiche, esterne ai vangeli, che ci raccontano una storia diversa. Ovviamente non siamo neanche in possesso di un testo che ci attesti senza ombra di dubbio il fatto che Gesù fosse celibe.

Ma dobbiamo porci una domanda, a partire proprio dal testo evangelico. Marco, Matteo, Luca e Giovanni non presentano affatto, nei loro scritti, la condizione del celibato come «superiore» rispetto a quella degli uomini e delle donne sposate. Pietro era sposato (Gesù a Cafarnao guarì sua suocera), così come lo erano molti dei primi discepoli di Cristo. Dalle pagine dei vangeli, la figura del Nazareno ci viene presentata in tutta la sua umanità: mangia e beve, partecipa alle feste, si fa invitare in casa a cena dagli amici, prova dolore per la morte delle persone a cui vuole bene. Insomma, il suo essere figlio di Dio non rappresenta una diminuzione della sua natura umana. Perché mai, se fosse stato sposato, gli evangelisti non avrebbero dovuto annotarlo nei loro scritti? Per quale motivo avrebbero dovuto censurare questa sua caratteristica, nascondendola, facendola sparire? E per quale motivo avrebbero dovuto fare lo stesso anche altri autori, magari non appartenenti alla comunità cristiana? Anche se Gesù fosse stato sposato, questo fatto non avrebbe sminuito la sua pretesa divinità, quella divinità che in realtà – secondo Dan Brown – non esisteva ma che sarebbe stata costruita a tavolino da Costantino e dal Concilio di Nicea. Non si comprende, dunque, per quale motivo si sarebbe dovuto nascondere il matrimonio di Cristo, se questo davvero fosse esistito. Non vi sono dunque ragioni «teologiche» per giustificare l’inesistente complotto adombrato dal Codice da Vinci.

Ci sia permessa ora una piccola digressione, dedicata non direttamente al romanzo di Dan Brown, ma alla sua «musa ispiratrice», vale a dire al libro di Baigent, Leigh e Lincoln, The Holy Blood and the Holy Grail, pubblicato per la prima volta nel 1982 e attualmente disponibile con il titolo Il Santo Graal nella collana economica dei «Miti» Mondadori. I tre autori (due dei quali, lo ricordiamo, hanno citato in giudizio Brown accusandolo di aver sostanzialmente copiato le loro teorie), offrono un altro presunto appiglio alla condizione di uomo sposato di Gesù, riferendosi alle nozze di Cana. Vale la pena di riportare uno stralcio del loro libro, in modo che il lettore possa farsi un’idea più precisa di quali siano le «fonti» a cui ha attinto il fortunato autore del Codice da Vinci.

«Nel Quarto Vangelo c’è un episodio relato a un matrimonio che potrebbe essere appunto quello di Gesù. È l’episodio delle nozze di Cana, decisamente molto noto. Tuttavia, pone certi problemi salienti che meritano un’attenta considerazione («episodio relato»? Un’attenta considerazione meriterebbe innanzitutto la traduzione dell’edizione italiana, non certo brillante, nda). Secondo il racconto del Quarto Vangelo, le nozze di Cana sembrerebbero una modesta cerimonia locale, un tipico matrimonio di paese, e la sposa e lo sposo restano anonimi. A queste nozze Gesù è specificamente “invitato”, il che è un po’ strano, forse, perché non aveva ancora iniziato il suo magistero. Ancora più strano, però, è il fatto che c’era anche sua madre; e la presenza della madre sembra data per scontata. Di certo non viene spiegata in nessun modo. Ma c’è di più. È Maria che non soltanto suggerisce al figlio di provvedere altro vino ma praticamente glielo ordina. Si comporta esattamente come se fosse la padrona di casa: “Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: Non hanno più vino. E Gesù rispose: Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora» (Giovanni 2,3-4). Maria, però, per nulla turbata, non bada alla protesta del figlio: “La madre dice ai servi: Fate quello che vi dirà”. I servitori obbediscono prontamente, come se fossero abituati a ricevere ordini da Maria e Gesù. Sebbene Gesù cerchi di eludere la sua richiesta, Maria ottiene ciò che desidera: Gesù compie il suo primo grande miracolo, la trasmutazione dell’acqua in vino. A quanto ci fanno sapere i Vangeli, in precedenza non ha mai mostrato i suoi poteri; e Maria non avrebbe neppure motivo di presumere che li possieda. Ma anche se lo sapesse, perché quei doni, unici e sacri, dovrebbero venire usati per uno scopo tanto banale? Perché Maria dovrebbe rivolgere al figlio una richiesta del genere? E soprattutto perché i suoi “ospiti” invitati a un matrimonio dovrebbero assumersi la responsabilità di provvedere al necessario, una responsabilità che per tradizione spetta al padrone di casa? A meno che, naturalmente, le nozze di Cana siano le nozze di Gesù. In tal caso, sarebbe stato suo compito fornire il vino. C’è un altro indizio che induce a pensare che le nozze di Cana siano le nozze di Gesù. Subito dopo il miracolo, “il maestro di tavola chiamò lo sposo e gli disse: “Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po’ brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono”… Queste parole sembrerebbero chiaramente rivolte a Gesù. Secondo il Vangelo, tuttavia, sono rivolte allo “sposo”. Una conclusione ovvia è che Gesù e lo “sposo” siano la stessa persona».

Conclusione ovvia? Abbiamo riprodotto il brano tratto da The Holy Blood and the Holy Grail, proprio perché tutti si potessero rendere conto di quali elucubrazioni siano alla base del Codice da Vinci. Dunque, ricapitoliamo: non esistono vangeli, canonici o apocrifi, che parlino del matrimonio di Gesù. Neanche i brani tardivi e appartenenti alla tradizione gnostica lo fanno. Ecco allora che i nostri autori pensano di rintracciare la «prova» del matrimonio di Cristo addirittura nelle nozze di Cana. Innanzitutto possiamo chiederci perché mai Gesù si sia sposato a Cana: Migdal, la città d’origine della Maddalena, sorge a circa otto chilometri a nord di Tiberiade, sul mare di Galilea, mentre Gesù, lo sappiamo, era il Nazareno, perché abitava a Nazaret. Al momento in cui avvengono le nozze di Cana, egli aveva già incontrato i primi discepoli. Cana non è molto distante da Nazaret, ma l’ipotesi di Baigent, Leigh e Lincoln rimane davvero oscura. Perché Cana di Galilea? Leggiamo meglio un passo decisivo del vangelo di Giovanni, che, unico tra i quattro estensori dei testi canonici, descrive l’episodio.

«Tre giorni dopo (il riferimento temporale è quello all’incontro tra Gesù e Natanaele, seguito al battesimo sul Giordano e al primo incontro tra il Nazareno e i primi due discepoli, Andrea, fratello di Pietro, e Giovanni, lo stesso evangelista, nda) ci fu una festa di nozze in Cana di Galilea e c’era là la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli…».

L’evangelista è molto esplicito e davvero la sua descrizione non si presta ai doppi sensi proposti dai tre autori di The Holy Blood and the Holy Grail. Gesù viene invitato insieme ai suoi discepoli. Maria non si comporta da «padrona di casa», ma chiede aiuto al figlio, riesce a «strappargli» quel prodigio, senza il quale i veri padroni di casa avrebbero fatto una pessima figura con i numerosi ospiti. Quello che l’evangelista Giovanni non dice e non descrive, tra le parole di Gesù e l’ordine di Maria ai servi, è il gioco degli sguardi che dev’essere avvenuto in quel momento tra madre e figlio. E il figlio, che stando al testo greco non aveva alcuna intenzione di manifestare il suo potere in quell’occasione, lo fa perché la madre glielo ha chiesto. È probabile che Maria stesse aiutando le donne che si occupavano del banchetto. Gli sposalizi, all’epoca, erano delle feste che coinvolgevano l’intero paese e la Madonna si dev’essere accorta che il vino stava finendo. Non si capisce proprio da dove possa essere tratta la «conclusione ovvia» dei tre ispiratori di Dan Brown. I quali, tra l’altro, scrivono che Maria non avrebbe motivo di sapere che il figlio poteva fare miracoli: davvero strano, se pensiamo che la Madonna – stando al racconto evangelico – sapeva: 1) di aver portato in grembo il figlio di Dio, 2) che quel figlio era stato concepito per opera dello Spirito Santo, 3) che quel figlio era il messia atteso da Israele, 4) che quel figlio all’età di dodici anni era in grado di ammaestrare i sacerdoti del tempio di Gerusalemme.

Ma c’è un’altra considerazione, questa sì ovvia, che possiamo fare. Dimentichiamo per un attimo l’episodio e usiamo soltanto la logica. Secondo Baigent, Leigh e Lincoln, Giovanni adombra il matrimonio di Gesù, ma evidentemente non vuole esplicitare che si tratta delle nozze tra il Nazareno e la Maddalena (che hanno scelto il territorio «neutro» di Cana per questa celebrazione). Egli appartiene dunque a quei discepoli intenzionati a mettere il silenziatore all’evento, a nascondere il matrimonio, a ridimensionare la figura della «moglie» di Gesù, alla quale lo stesso Cristo avrebbe affidato, secondo la teoria dei tre autori consacrata da Dan Brown, la guida della stessa Chiesa.

Dobbiamo però chiederci per quale motivo Giovanni, invece di «mascherare» questo episodio, non lo abbia semplicemente cassato. Perché mai lo avrebbe descritto, se avesse saputo che le nozze di Cana erano in realtà quelle tra Gesù e la Maddalena? Perché mai avrebbe rischiato di far emergere questa scomoda «verità», faticosamente nascosta dalla prima comunità cristiana tutta intenta non all’annuncio della Buona Novella, ma alla caccia alla Maddalena e alla sua stirpe di «sangreal»? Nulla costringeva Giovanni, da tutti considerato l’autore canonico che scrive per ultimo, a citare nei particolari l’evento di Cana, il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino, il primo prodigio che manifesta il potere di Gesù, all’inizio della sua vita pubblica. Tanto più che questo episodio non è presente in Marco, Matteo e Luca, vale a dire i tre «sinottici». Sarebbe bastato semplicemente non parlarne. È poi davvero curioso che questo evento, così rivelatore del matrimonio di Gesù con la Maddalena, non compaia nei vangeli apocrifi o gnostici, nei vangeli «segreti», frutto di tradizioni tardive e secondarie, e di redazioni lontane secoli dai fatti descritti. La «prova» del matrimonio del Nazareno sarebbe stata dunque citata solo da Giovanni, inspiegabilmente. Non dimentichiamoci, poi, di quanto abbiamo affermato nelle pagine precedenti: lo stesso presupposto della teoria di Dan Brown, vale a dire la volontà di manifestare una superiorità del celibato rispetto alla vita matrimoniale, non emerge affatto dai racconti evangelici. Se davvero a Cana si fosse sposato Gesù, l’evangelista Giovanni lo avrebbe semplicemente descritto. Se non l’ha fatto, e se nessuno degli altri autori dei vangeli canonici l’ha fatto, se nessuno dei testi a noi pervenuti parla delle nozze di Cristo, non è un’«ovvia conclusione» quella di affermare che queste nozze evidentemente non si sono mai verificate?

Alla festa di nozze, a Cana, Maria è invitata insieme a Gesù. Abbiamo detto che queste feste coinvolgevano tutto il paese, e dunque si spiega facilmente il fatto che insieme al Nazareno vi abbiano preso parte anche i suoi discepoli, da lui incontrati pochi giorni prima. È davvero contorto immaginare che essi abbiano preso parte alla festa di nozze del loro «maestro» ma che abbiano voluto cancellare questo evento e tutti gli altri indizi o «prove» di quel matrimonio, vale a dire del rapporto che avrebbe legato Cristo alla Maddalena.

Ciò che invece emerge dal brano evangelico, poi, è ben altro. Ci sia permesso di citare un’omelia di Sant’Agostino, dedicata al miracolo delle nozze di Cana (Commento al Vangelo di San Giovanni, Omelia 8, 3):

«Di fronte a tanti prodigi compiuti per mezzo di Gesù Dio, c’è da meravigliarsi se l’acqua è mutata in vino per mezzo di Gesù uomo? Diventando uomo, egli non ha cessato di essere Dio: si è aggiunto l’uomo, non è venuto meno Dio. Chi ha compiuto questo prodigio è colui che ha creato tutte le cose. Non dobbiamo meravigliarci che Dio abbia fatto questo, ma piuttosto ringraziarlo perché lo ha fatto in mezzo a noi, e per la nostra salvezza. Attraverso le stesse circostanze egli ci vuole suggerire qualcosa, poiché ritengo che non senza una ragione il Signore intervenne alle nozze. A parte il miracolo, il contesto stesso adombra qualche mistero, qualche sacramento. Bussiamo perché ci apra e c’inebri del vino invisibile. Anche noi eravamo acqua e ci ha convertiti in vino, facendoci diventare sapienti; gustiamo infatti la sapienza che viene dalla fede in lui, noi che prima eravamo insipienti. Credo sia proprio mediante la sapienza – non disgiunta dall’onore reso a Dio, dalla lode della sua maestà e dall’amore della sua potentissima misericordia – che potremo pervenire all’intelligenza spirituale di questo miracolo».

Rimane ancora da affrontare il problema della tradizione ebraica, quelle usanze secondo le quali un uomo come Gesù, un «rabbi», non poteva certo rimanere celibe. Come faceva infatti a essere celibe se quella cultura non contemplava questa possibilità?

«Gesù come uomo sposato ha infinitamente più senso che come scapolo», dice Teabing a Sophie Neveu, in una pagina del Codice da Vinci. E alla domanda della poliziotta crittografa sul perché di questa affermazione, ecco come risponde il professore nel romanzo: «“Perché Gesù era ebreo”… Secondo i costumi ebraici, il celibato era condannato e ogni padre aveva l’obbligo di trovare per il figlio una moglie adatta. Se Gesù non fosse stato sposato, almeno uno dei vangeli della Bibbia avrebbe accennato alla cosa e avrebbe fornito una spiegazione di quella innaturale condizione di celibato». Vediamo pure come trattano l’argomento gli ispiratori di Brown, nel loro The Holy Blood and the Holy Grail: «Se Gesù non predicava il celibato, non vi è neppure motivo di supporre che lo praticasse. Secondo il costume ebraico del tempo, era non soltanto usuale, ma quasi obbligatorio, che un uomo si sposasse… Per un padre ebreo, trovare una moglie al proprio figlio era obbligatorio quanto provvedere a farlo circoncidere. Se Gesù non fosse stato sposato, questo fatto avrebbe suscitato un notevole scalpore. Avrebbe attirato l’attenzione, e sarebbe stato usato per caratterizzarlo e identificarlo… L’assenza di riferimenti in proposito indicherebbe che Gesù, per quanto riguardava il celibato, seguisse le convenzioni dei suoi tempi e della sua cultura: indicherebbe, insomma, che era sposato. Solo questo potrebbe spiegare in modo soddisfacente il silenzio dei Vangeli al riguardo».

Cominciamo col dire che Gesù avrebbe potuto benissimo scegliere di non conformarsi alla mentalità dell’epoca e sappiamo che in taluni casi ha preso posizioni di aperta sfida a quella mentalità. «Proprio come sarebbe sbagliato ritrarre Gesù come qualcuno totalmente “in discontinuità” dal giudaismo dei suoi giorni, così è discutibile, alla luce del materiale autentico dei vangeli, ritrarlo sempre in accordo con il suo ambiente giudaico. Non sarebbe stato crocifisso se fosse stato tanto conformista», scrive John P. Meier nel suo Un ebreo marginale (vol. 1, Queriniana 2002, p. 329). Inoltre, ci si deve chiedere con quale corrente o con quale tendenza del giudaismo del I secolo Gesù fosse «in continuità» o «in discontinuità», dato che stiamo parlando di una realtà ricca, variegata e complessa. Non possiamo dunque essere certi, a priori, che la considerazione negativa sul celibato attraversasse tutte le correnti del giudaismo, da quella farisaica a quelle profetiche e apocalittiche.

Ma c’è di più. Anche in questo caso Dan Brown sembra proprio rifilare ai suoi lettori l’ennesima leggenda. Egli vuole infatti far credere che, non avendo trovato vere «prove» del matrimonio con la Maddalena, questo dovesse esistere sulla base di un ragionamento di principio: «doveva» essere sposato, perché tutti lo erano, perché così si usava allora, perché non poteva essere altrimenti. «Doveva» essere sposato perché se non lo fosse stato, gli evangelisti l’avrebbero sottolineato; perché rimanere celibi, all’epoca, non si poteva proprio. Perfetto, lineare, convincente. Peccato che sia, semplicemente, falso.

Vediamo subito il perché. È vero che esisteva un detto rabbinico, attribuito a rabbi Eliezer ben Ircano, tannaita del periodo 70-135 dopo Cristo, che recita: «Chi rifiuta di procreare è simile a un omicida». Ma all’epoca di Gesù non erano così rare le eccezioni. Pensiamo, per esempio, agli esseni, alla comunità che viveva a Qumran, sul Mar Morto. Plinio il Vecchio (che com’è noto non è un evangelista né un autore «canonico»…) scrive che essi vivevano senza donne e senza praticare l’amore con esse («Sine ulla femina, omni venere abdicata», Nat. Hist 5, 73) e dunque senza procreare discendenza. Anche Flavio Giuseppe, lo storico ebreo naturalizzato romano, nel libro Antichità Giudaiche (18, 20) parla di un gruppo di esseni spiegando che «presso di loro il matrimonio è spregiato». Ecco che cosa scrive questo autore:

«Merita inoltre tutta la nostra ammirazione il fatto che (gli esseni, nda) superino, quanto a rettitudine, tutti gli altri uomini che si dedicano alla pratica della virtù; e in tale misura che non si è mai visto alcuno, sia pure per breve tempo, né fra i greci né fra i barbari, che fosse in grado di resistere a lungo fra di loro. Il che è dovuto alla pratica che impone di condividere i loro beni personali; cosicché il ricco non gode della propria ricchezza più di quanto non ne goda chi non possiede nulla. Vi sono all’incirca quattromila uomini che vivono in questo modo, e né si sposano con donne né desiderano tenere servitori; dal momento che pensano che le prime portino gli uomini all’iniquità e i secondi siano fonte di discordie domestiche; ma, dato che vivono da soli, si assistono l’un l’altro».

E lo stesso Filone di Alessandria, filosofo ebreo del I secolo, esponente del sincretismo filosofico-religioso che tentava di conciliare la filosofia ebraica con il pensiero greco, parlando dei «terapeuti», afferma che essi amavano una vita libera da vincoli familiari: «Una volta dunque che si sono spogliati dei loro beni, non più schiavi di nessuno, fuggono senza voltarsi indietro dopo aver abbandonato i fratelli, i figli, le mogli, i genitori, la vasta parentela, la cerchia degli amici, la terra in cui furono generati e nutriti» (De vita contemplativa 18). Anche nel mondo greco, del resto, il celibato non era del tutto sconosciuto. Per esempio Epitteto, il filosofo greco rappresentante dello stoicismo (vissuto tra il 55 e il 135 dopo Cristo), lo considera una caratteristica del saggio: «Non è forse necessario che il cinico sia esente da distrazioni, completamente al servizio di Dio, per poter frequentare gli uomini senza essere legato a doveri privati né trattenuto da relazioni, trascurando le quali non potrebbe salvaguardarsi come uomo di perfetta virtù…».

Senza contare, poi, che lo stesso «precursore» di Gesù, Giovanni Battista, appariva un solitario che viveva lontano dai centri abitati e non aveva una famiglia. Osserva Giuseppe Barbaglio, nel libro Gesù ebreo di Galilea (EDB 2002, p. 129): «L’assenza di moglie e di figli (di Gesù, nda) trova la sua spiegazione più probabile nel fatto che egli non si era sposato. I vangeli sinottici, poi, parlano di donne che lo seguivano e ne menzionano anche, a volte, i nomi, ma di nessuna si dice che fosse sua moglie… Né mancano esegeti secondo i quali sarebbe stato in riferimento a se stesso che Gesù disse: “Ci sono eunuchi che così sono nati dal ventre della madre; ci sono eunuchi resi tali per mano umana; e ci sono eunuchi che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli” (Matteo 19,12). Non è escluso che così abbia risposto al motteggio di gente malevola che lo disprezzava, lui celibe, appunto come eunuco».

Per quanto riguarda la tradizione rabbinica, infine, se abbiamo la citazione di rabbi Eliezer ben Ircano, il quale paragona il non far figli all’omicidio, abbiamo anche l’eccezione di un altro rabbino, Simeon ben Azzai (contemporaneo del primo), che predicava il matrimonio e la procreazione ma non abbracciava questa condizione: «La mia anima è innamorata della Torà. Il mondo può essere portato avanti da altri». Dunque non possiamo assolutamente affermare che il celibato fosse una condizione inesistente all’epoca di Cristo e proprio nella giustificazione del rabbino ben Azzai, vale a dire un impegno totalizzante verso la parola di Dio che precludeva la vita matrimoniale, possiamo trovare un eco delle motivazioni che hanno spinto sia Giovanni Battista, sia Gesù a rimanere celibi.

«Se mettiamo in relazione tutte queste tendenze», ha scritto John P. Meier nel suo libro Un ebreo marginale (p. 338), «osserviamo che il I sec. d.C. era popolato da alcuni sorprendenti individui e gruppi celibi: alcuni esseni e qumraniani, i terapeuti, Giovanni Battista, Gesù, Paolo, Epitteto, Apollonio e vari cinici itineranti. Il celibato era sempre una scelta rara e talvolta sgradevole nel I sec. d.C. Era comunque una scelta fattibile». Piuttosto che andar dietro alle fantasticherie di Dan Brown, ci dovremmo invece domandare perché proprio il I secolo, in particolare, è stato segnato da un numero considerevole di celibi che hanno esercitato un’influenza nei movimenti religiosi e filosofici.

Insomma, conclude Meier, «i diversi contesti, prossimi e remoti, nel Nuovo Testamento e nel giudaismo, fanno della tesi che Gesù sia rimasto celibe per motivi religiosi l’ipotesi più probabile… Il silenzio totale su moglie e figli, in contesti in cui compaiono i suoi vari parenti, può ben indicare che non si sia mai sposato».

Quanto all’affermazione secondo la quale Gesù era un rabbino e come tale doveva essere sposato, bisogna precisare che gli apostoli lo chiamavano talvolta così non perché egli fosse stato ufficialmente investito della carica, quanto piuttosto perché rappresentava il loro «maestro». In effetti Luca, per definire il ruolo del Nazareno, usa proprio il termine di «maestro», non quello di rabbino. Il fatto che gli ebrei domandassero a Gesù in forza di quale autorità egli compisse certe azioni, sta proprio a indicare che Cristo non aveva alcuna carica precisa o pubblica nell’ambito del giudaismo dell’epoca. Anche questa obiezione, insomma, viene a cadere.

Aggiungiamo un’ulteriore considerazione basata sulla logica, traendola dal libro Contro il Codice da Vinci, di José Antonio Ullate Fabo (Sperling & Kupfer Editori, 2005, pp. 91-92). «Diamo per assodato ciò che sostiene Dan Brown e teniamo conto che i vangeli gnostici parlano anche del fatto che santa Maria Maddalena era una discepola del rabbino, cioè che conobbe Gesù quando erano entrambi adulti. Che senso avrebbe che Gesù fosse arrivato celibe ai trent’anni e si fosse sposato solo allora? Se davvero il celibato fosse stato uno scandalo insopportabile per gli ebrei, come sostengono i sapienti personaggi di Brown, quando Gesù fosse arrivato all’età giusta per prendere moglie san Giuseppe e la Vergine gli avrebbero trovato una ragazza di Nazaret, e si sarebbe sposato con lei prima dei diciotto anni, per esempio. La cosa assurda è voler vedere “sensato” il matrimonio con Maria Maddalena quando è la cosa più inverosimile».

A onor del vero, quando gli esegeti e i biblisti analizzano nei loro lavori lo «stato di famiglia» di Gesù, e si chiedono se egli fosse sposato, valutando i pro e i contro, e il «silenzio» in proposito delle fonti evangeliche, in nessun caso essi si spingono a ipotizzare come probabile o possibile un matrimonio con la Maddalena. Semplicemente per il fatto che se fosse stata lei la «moglie» di Cristo, i vangeli l’avrebbero citata come tale.

Dobbiamo in conclusione riportare un ultimo argomento, legato alla Prima lettera di Paolo ai Corinzi (9, 4-6), nella quale si legge: «Non abbiamo noi il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo noi il diritto di condurre con noi una donna sorella, come fanno gli altri apostoli, e i fratelli del Signore, e Pietro? Oppure soltanto io e Barnaba non abbiamo il diritto di dispensarci dal lavoro materiale per vivere?». In questa digressione, scrive Darrell L. Bock, «Paolo osserva che gli apostoli, i fratelli del Signore e Pietro avevano il diritto a una moglie. In altre parole, erano legittimati a sposarsi. Sarebbe stato semplice aggiungere che Gesù era sposato, se così fosse stato. L’argomento avrebbe suggellato la sua perorazione, senonché Paolo ignora il punto. Qualcuno potrebbe ribattere che egli nomina solo persone viventi. Ma la risposta a tale obiezione è che sta discutendo di diritti e di precedenti. Citare, per esempio, qualche predecessore sarebbe stato possibile e logico, se Gesù fosse stato sposato. La conclusione è che Paolo non ne fa menzione perché non avrebbe potuto. Il passo di 1 Corinzi 9 mostra che la Chiesa non era affatto imbarazzata nel rivelare che i suoi capi erano sposati, o nel suggerire che avevano il diritto di farlo. Lo stesso sarebbe accaduto per Gesù se fosse stato sposato. Difatti, se così fosse stato, Paolo non avrebbe avuto a disposizione un momento migliore per affermarlo».

Che cosa rimane, dunque, delle affermazioni contenute nel Codice da Vinci a proposito delle «nozze» di Gesù? Quale attendibilità hanno le tesi sostenute dal romanziere e da lui attinte, come abbiamo visto, da un libro pubblicato per la prima volta nel 1982?


http://apologetica.altervista.org/processo_codice_da_vinci_nozze.htm